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Recensione di Vera Pegna

Di seguito riportiamo la recensione di Vera Pegna, scrittrice, interprete, attivista politica. Essa stessa protagonista negli anni '60 di alcune delle vicende narrate nel libro "Francesca Serio. La Madre".

Vera Pegna
“Francesca Serio, la madre”  
di Franco Blandi, Navarra Editore 2018
Recensione di Vera Pegna






“Francesca Serio, la madre” è un libro avvincente: vale la pena leggerlo, possederlo e regalarlo. Anche se – ammetto – per me un motivo personale si è aggiunto al piacere della lettura. Si tratta del fatto che il Pci mi mandò a Caccamo – a tre chilometri da Sciara, il luogo dove si svolgono i fatti - pochi anni dopo l’assassinio di Salvatore Carnevale e mi trovai ad affrontare lo stesso capomafia, don Peppino Panzeca, il mandante degli assassinii narrati nel libro, nonché capo della commissione della mafia palermitana, altro che mafioso paesano e analfabeta. Più ci penso e più mi rammarico di non avere incontrato Francesca, tanto più che, mi ha detto Franco Blandi, sapeva di me, la “fimmina di Caccamo”.
Di assassinii il libro è pieno: Più di sessanta sono state le persone ammazzate nella zona di Caccamo e un’altra cinquantina i sindacalisti e gli attivisti di sinistra ammazzati in Sicilia per la loro attività in difesa dei lavoratori. Ѐ questo il contesto societale e politico in cui si svolge la vita di Francesca Serio e di suo figlio Salvatore Carnevale: una vita povera, fatta di essenziale. Francesca esce col buio e arriva in campagna col giorno, “adesso ritorno che è ancora giorno ma arriverò a casa che sarà buio”; lo stesso fa Turiddu che “non ha neanche un mulo o una bicicletta”. Con le foglie di borraggine che raccoglie lungo la trazzera, Francesca prepara la cena: frittelle di borraggine, formaggio, pane e vino. Ieri sera: un piatto di cicoria, formaggio, pane e vino. Ricorda la sua infanzia a Galati, quando “non c’era niente da mangiare” e il suo pensiero va a nonna Nina: le cose povere che avevamo da mangiare, con le sue mani, sapeva farle diventare preziose. L’ansia quotidiana della ricerca di cibo viene illustrata da immagini nitide e veritiere. 

Francesca Serio
Da allora sono trascorsi sessant’anni e, a mano a mano che procedevo nella lettura del libro, scorrevano davanti ai miei occhi le persone che - nel bene o nel male - hanno segnato quegli anni della mia vita; vi ho ritrovato le stesse struggenti delusioni patite da noi militanti di base rispetto al nostro partito (socialista quello di Carnevale, comunista quello mio e dei miei compagni) che puntano in modo irrefutabile alla continuità della logica che condusse alla débacle successiva dei partiti di sinistra: infatti, tranne rare eccezioni, i nostri dirigenti si dimostravano ben poco interessati alle lotte della loro base e assai più alle dinamiche dei vertici partitici. Lo dice lo stesso Salvatore al congresso socialista con parole inequivocabili che vengono ricordate al convegno organizzato dalla Camera del Lavoro di Palermo in occasione dell’anniversario della sua morte: “Ho la sensazione che io vivo fisicamente sul campo di battaglia e sento nella mia coscienza che in questa lotta contro la mafia, per il riscatto sociale dei lavoratori siamo soli, mancando una coscienza e una solidarietà nazionale”.Testimonianza tremenda che avrebbe dovuto mettere sull’attenti l’intera platea dei presenti ma che cadde nel nulla finché la mafia non decise di eliminarlo, lui Turiddu, già minacciato ripetutamente dagli sgherri di don Peppino. Era stato più volte avvertito: “Picca n’hai di sta malandrinarìa”; un altro, non meno esplicito, gli dice: “Talè, io ti voglio troppo bene, perché devi fare qualche mala morte? “ Anche i compagni di Turiddu vengono minacciati: a Polizzi, un campiere della principessa Notarbartolo ricorda la fine che aveva fatto qualche mese prima un contadino: era stato ammazzato legato a un mulo e trascinato per la campagna. 

Turiddu si fidava delle istituzioni e sosteneva che le minacce andavano denunciate ai carabinieri in quanto questi rappresentavano lo Stato anche se, da che parte stava lo Stato a Sciara, Turiddu ne era ben consapevole: i carabinieri - ospitati in una proprietà della principessa Notarbartolo - rifiutavano di verbalizzare le sue denunce, intimidivano i contadini che andavano a scioperare e il maresciallo di Termini andò fino a dirgli: “Sei il veleno dei lavoratori”.
Salvatore Carnevale

Tali propositi hanno richiamato alla mia mente la risposta che mi diede il maresciallo dei carabinieri di Caccamo quando gli chiesi di accompagnarmi sul feudo Ciaccio per dare manforte e legittimità ai mezzadri che chiedevano l’applicazione della legge sulla divisione dei prodotti: “Non ci vengo e dica a chi la manda che è un fetente”. Gli risposi che allora fetente era lui e me ne andai sbattendo la porta. Succedeva sette anni dopo l’assassinio di Turiddu. 

“Un comunista ha il dovere di studiare e lottare”, mi aveva insegnato il segretario della Camera del Lavoro di Palma di Montechiaro, Angelo Scopelliti, prima ancora che mi iscrivessi al partito comunista. Spesso mi sono chiesta: a Turiddu Carnevale chi glielo insegnò? Eppure, ci dice Francesca che ogni sera lui leggeva il giornale e studiava, cercando nel dizionario il significato delle parole che non capiva e diceva che bisogna coinvolgere le persone, parlare con i contadini e spiegare che la legge è dalla loro parte e che i loro diritti devono essere difesi e tutelati. Anni dopo, nel processo contro i suoi assassini, il suo avvocato ricorda il suo ricorso esclusivo e pignolo ai mezzi legali. 

Nel mettere in risalto questo tema, Franco Blandi ha colto un aspetto spesso sottovalutato delle lotte di quegli anni: l’acquisizione della cultura del diritto, dei diritti da difendere sempre perché le conquiste democratiche non sono mai definitive. Salvatore Carnevale a Sciara, Filippo Intili a Caccamo e come loro chissà quanti altri, “li mangia picca cu’ lu sciatu ciusu”[1] nella Sicilia degli anni ‘40 e ‘50 capirono che il diritto è un terreno della lotta di classe, e quindi ogni passo avanti, ogni singola conquista non solo apre la strada ad un altro diritto ma migliora l’intera società. 

Anche a Caccamo la presa di coscienza umana e politica vissuta insieme ai miei compagni di partito, il legame profondo che si formò tra noi, coscienti di essere comunisti e finalmente fieri di poter camminare a testa alta, venivano alimentati dalle nostre conquiste intellettuali (a me sembrava di farne di più a Caccamo con i miei compagni, spesso analfabeti, di quante ne avessi fatte nei miei studi universitari), mentre per i miei compagni era la scoperta liberatoria di poter spaziare al di là delle miserie quotidiane, di investirsi di responsabilità collettive, di ragionare sulla mafia e sulle leggi a loro favorevoli e che non venivano applicate. Le leggi, appunto, quindi il diritto.

La copertina del romanzo
Francesca Serio. La madre
Uno dei pregi - e non il meno importante - del libro è rappresentato dal linguaggio usato dai protagonisti: lo vediamo articolarsi in registri diversi a seconda di chi parla e del contesto in cui si svolge il dialogo. Dalle parole usate da Francesca nel raccontare la sua vita rimane la vivida impressione di averle ascoltate anziché lette: l’uso che fa del dialetto fino all’assassinio del figlio Turiddu, quando lo trova riverso a terra coperto da un lenzuolo e lo riconosce grazie ai calzini che aveva lavato la vigilia, non lascia dubbi sull’autenticità dei fatti. Una scena lacerante, un atto di violenza estrema che catapulta Francesca in un ruolo nuovo: lei, contadina analfabeta, si erge al di sopra del suo quotidiano fatto di omertà e di paure e denuncia per nome i mafiosi che hanno ucciso suo figlio. Da quel momento in poi, tranne qualche dialogo con parenti e amici, Francesca si esprime in italiano e il passaggio dal dialetto all’italiano è un momento dirompente del libro in cui primeggia l’intransigenza di Francesca nel denunciare gli assassini del figlio; ed è lo stesso concetto e la medesima parola “intransigenza”, appunto, che sceglie Carlo Levi per descrivere Salvatore e la sua tenacia nell’andare avanti, noncurante delle minacce mafiose, e persino dell’assassinio cruento di Filippo Intili, il mezzadro comunista che era andato da lui pochi giorni prima per parlargli di uno sciopero di mezzadri che stava organizzando a Caccamo. 

La stele che ricorda Salvatore Carnevale
Bene ha fatto Franco Blandi a ricordare che Ignazio Buttitta scrisse il suo ”Lamentu pi la morte di Turiddu Carnivali” subito dopo l’assassinio di Salvatore, una ballata bellissima che racconta la vita di Turiddu, la sua determinazione inflessibile nel combattere la mafia, l’amore e l’angoscia della madre Francesca. Il cantastorie Cicciu Busacca la portò in giro per i paesi suscitando ovunque una forte e commossa partecipazione del pubblico e per questa ragione la piazza di Caccamo gli fu vietata da don Peppino Panzeca. Seguirono anni carichi di novità: l’affermazione del partito comunista, l’assenza di Peppino Panzeca costretto alla latitanza. Nel 1963, in occasione della chiusura della campagna elettorale regionale, invitammo Busacca a Caccamo per cantare la ballata in piazza, mantenendo segreta la sua venuta fino all’ultimo momento. Stavano scemando gli applausi al comizio del senatore Li Causi quando si levarono le note della chitarra del cantastorie. La piazza gremita ammutolì. “Veni lu jornu che scende lu messia: il socialismo, con le sue ali di manto, porta pane, pace e poesia” cantò Cicciu Busacca: il messaggio di fondo con il quale Turiddu incoraggiava i braccianti.

La ballata di Buttitta ebbe l’effetto di far conoscere Salvatore Carnevale e la sua storia dentro e fuori la Sicilia. Adesso il testimone passa a “Fancesca Serio, la madre”, la storia dell’eroina umile che seppe combattere i potenti.

[1]I mangia poco con il fiato chiuso. Ignazio Buttita,  U lamentu pi la morte di Turiddu Carnivali.  http://www.youtube.com/watch?feature=player_detailpage&v=7vYnrbrneDM






Biografia di Vera Pegna tratta da "L'Enciclopedia delle donne"
http://www.enciclopediadelledonne.it/biografie/vera-pegna/

Vera Pegna nasce nel 1934 ad Alessandria d’Egitto, dove vive fino ai diciotto anni. Di padre italiano e madre ungherese respira sin dalla tenera infanzia i valori antifascisti di giustizia e libertà, accompagnati da una severa critica al comunismo. Compie i suoi studi in Lingue straniere in Inghilterra e Svizzera, maturando ideali di lotta sociale non violenta.
Nel 1959 approda a Partinico, per lavorare come interprete a un convegno internazionale organizzato da Danilo Dolci, il “Gandhi siciliano”, che denuncia le drammatiche problematiche sociali della realtà isolana. Dopo questa esperienza Vera accetta la proposta di restare a Palma di Montechiaro, per supportare il neonato comitato cittadino. È il suo primo contatto con la prepotenza mafiosa che rende impossibile ogni attività del comitato, destinato a sciogliersi poco dopo.
A Palma conosce Angelo Scopelliti, bracciante comunista e segretario della Camera del Lavoro; durante un confronto sui metodi di lotta sociale non violenta, è lui a chiarirle con concisa semplicità la disperata povertà che li circonda: “Sai, può digiunare chi mangia e si sazia ogni giorno, non è il caso nostro.”
Neanche il Premio Lenin per la pace di ben 17 milioni di lire ottenuto da Dolci sarebbe stato minimamente utile a risollevare il disastro di quelle terre: “È inutile che io seguiti a stare qui facendovi spendere un sacco di soldi per fare un piano di sviluppo insensato”, avrebbe risposto l’economista inglese assoldato nella speranza di dare un minimo slancio all’economia. Questo segna la fine dell’esperienza di Vera nell’organizzazione di Danilo Dolci.
Nel 1962 Vera si presenta alla Federazione del Partito Comunista di Palermo per farsi assegnare un incarico. Il segretario Napoleone Colajanni le consiglia tre letture, che si riveleranno importanti nella formazione della sua coscienza politica: il Manifesto del Partito Comunista, il Che fare e Un passo avanti e due indietro di Lenin. Dopo qualche giorno viene inviata a Caccamo, con il compito di ricostruire il partito in vista delle elezioni.
Viene subito a contatto con l’egemone cultura mafiosa: “Qui a Caccamo non c’è niente da fare, c’è mafia”, asserisce secco il segretario della Camera del Lavoro, Piraino.
È la famiglia dei Panzeca ad avere il controllo capillare e incontrastato del paese; i pochi episodi di dissenso si risolvono puntualmente in efferate violenze ed emarginazione sociale e lavorativa. L’integrazione nella vita comunitaria passa attraverso il benestare della famiglia del padrino, ogni diritto si converte in favore concesso a discrezione dei notabili del paese.
Viene spiegato a Vera che il consiglio comunale si riunisce alla presenza ufficiale di don Peppino Panzeca, il capomafia, seduto accanto al sindaco, e che non è possibile presentare nessuna altra lista oltre a quella della Democrazia Cristiana; il Pci ha tentato di farlo due volte: la prima, il capolista Pino Pusateri è stato ricoverato in manicomio dieci anni, la seconda, il capolista Filippo Intini è stato tagliato in due con l’accetta.
Vera non si lascia intimorire. Nei giorni seguenti raccoglie le forze tra i militanti e comunica ai dirigenti increduli che la lista si presenterà. Viene appesa fuori dal balcone che dà sulla piazza del paese la bandiera rossa: nessuno aveva mai avuto il coraggio di farlo. Ha inizio l’organizzazione dei comizi. L’affluenza è resa pressoché nulla dalla presenza di don Peppino che, a scopo intimidatorio, si pone seduto su una sedia davanti all’ingresso della sede.
“Prova, prova, per don Peppino. Se rimane seduto davanti a noi, allora è vero che è un mafioso; e se è così, allora gli chiedo di alzare gli occhi e sorridere, chè gli voglio fare la fotografia!”, asserisce un giorno Vera al microfono affacciata sul balcone. Il terrore si diffonde in tutta la piazza: i passanti si dileguano, i compagni si rifugiano nella sede. Ma don Peppino si allontana. Segue un duro litigio con i compagni del Partito: è stato un affronto senza precedenti.
Reclutare i quindici candidati necessari per presentare la lista si rivela complicato: le violente intimidazioni mafiose non tardano a presentarsi costringendo i più ad abbassare la testa. Con fatica la lista viene presentata e si riesce a ottenere uno svolgimento approssimativamente regolare delle elezioni. Il Pci ottiene quattro consiglieri comunali: dopo quindici anni la Dc ha un’opposizione.
Il 28 giugno viene convocata la prima seduta. Lungo la via, le donne anziane del paese si fanno il segno della croce davanti ai consiglieri comunisti che si incamminano verso il municipio. Nella sala consiliare, tra tutte le sedie bianche per i consiglieri, sono posizionate quattro sedie nere; accanto alla sedia del sindaco c’è una grande poltrona: è la seduta di don Peppino. Vera vi si dirige e si siede. Nonostante il timore dei presenti, riuscirà a ottenere che venga rimossa.
Seguono mesi di intimidazioni, minacce, continui intralci al regolare svolgimento consiliare.
Vera si mobilita per far valere la legge della spartizione del grano, continuamente elusa. Solo tredici braccianti hanno il coraggio di affrontare il padrone, con Vera che si espone in prima linea dopo aver ottenuto dalle forze dell’ordine il consiglio di non procedere e il rifiuto di offrirle protezione. Nel giro di un giorno, in seguito alle intimidazioni, tutti i tredici contadini tornano sui loro passi e si sottomettono alla legge mafiosa.
Il 30 giugno si consuma la strage di Ciaculli: sette morti causati dall’esplosione di un’autobomba; ma a questo atto, la più brutale delle violenze commesse dai Panzeca, finalmente segue la denuncia per associazione a delinquere contro don Peppino e altri mafiosi, che sono quindi costretti alla latitanza.
Questa vittoria non è però sufficiente a dare slancio alla ripresa istituzionale del paese. Qualche tempo dopo Vera lascia Caccamo, con grande dispiacere. Vi farà ritorno dieci anni dopo e poi nuovamente nel 2012.
In questi anni la situazione è cambiata: Caccamo è un paese moderno e offre tutti i servizi, si parla apertamente di antimafia e si svolgono regolari elezioni. Vera non è stata dimenticata e molti giovani hanno seguito il suo esempio. La sua figura è diventata un mito e tutti nel paese hanno letto il suo libro Tempo di lupi e di comunisti, che racconta il suo impegno giovanile nella politica siciliana. Purtroppo il sostrato mafioso esiste ancora, forte e radicato, e accanto al sincero attivismo antimafioso sopravvive quello doppiogiochista di chi professa nobili ideali di facciata e nell’ombra protegge o pratica la criminalità. In diverse occasioni avverte di essere osannata per il suo celebre impegno passato, proprio perché passato, mentre nella concretezza del presente, ci sono ancora forti resistenze ad azioni che vengono viste come intromissioni.
L’impegno politico e sociale di Vera verte anche sulla questione palestinese. Molto vicina alla cultura araba, critica aspramente il sionismo.
Nel libro Le vittime ebree del sionismo accanto alla ricostruzione del rapporto tra le comunità ebraiche e quelle cristiane e musulmane, si affiancano riflessioni storico politiche intrecciate a ricordi e considerazioni personali dell’autrice.
Insieme a Giuseppe De Luca, Ugo Giannangeli e Giorgio Forti, ha raccolto nel libro I diritti umani e nazionali in Palestina, relazioni, articoli e documenti storici prodotti dal seminario sui diritti umani in Palestina.
Vera è attiva anche sul fronte laicista. Membro della Federazione Umanista Europea, offre il suo contributo ad arginare l’ingerenza del Vaticano e di ogni influenza religiosa sulla gestione politica e sociale di ogni stato di diritto in Europa. Ha esposto le sue riflessioni sul tema come coautrice del libro Laicità, utopia e necessità. Esprime le sue posizioni in diverse occasioni pubbliche, tra cui i convegni dell’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti.

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