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Recensioni

"Grazie a Vera Pegna per la sua acuta e approfondita recensione. Lei è testimone e protagonista di quegli anni terribili, quando il potere mafioso mal sopportò il suo coraggio a Caccamo e quello di Francesca Serio a Sciara. Entrambe, in tempi diversi, ma con la stessa determinazione, sfidarono apertamente i boss che allora sembravano invincibili.
Vera è una donna straordinaria. Con la sua vita ha insegnato a tutti noi il valore dell'impegno incessante per gli ideali di giustizia e libertà. Onorato della sua amicizia e della sua considerazione".

(Tratta da "Città Nuove Corleone" del 18/11/2022)

“Francesca Serio, la madre”, una riflessione di Vera Pegna sulle note del libro di Franco Blandi

di Vera Pegna

“Francesca Serio, la madre” è un libro avvincente: vale la pena leggerlo, possederlo e regalarlo anche se – ammetto – per me un motivo personale si è aggiunto al piacere della lettura. Si tratta del fatto che il Pci mi mandò a Caccamo – a tre chilometri da Sciara, il luogo dove si svolgono i fatti, pochi anni dopo l’assassinio di Salvatore Carnevale e mi trovai ad affrontare lo stesso capomafia, don Peppino Panzeca, il mandante degli assassinii narrati nel libro, nonché capo della commissione della mafia palermitana, altro che mafioso paesano e analfabeta. Più ci penso e più mi rammarico di non avere incontrato Francesca, tanto più che, mi disse Franco Blandi, sapeva di me, la “fimmina di Caccamo”.

Di assassinii il libro è pieno: Più di sessanta sono state le persone ammazzate nella zona di Caccamo e un’altra cinquantina i sindacalisti e gli attivisti di sinistra ammazzati in Sicilia per la loro attività in difesa dei lavoratori. Ѐ questo il contesto sociale e politico in cui si svolge la vita di Francesca Serio e di suo figlio Salvatore Carnevale: una vita povera, fatta di essenziale.

Francesca esce col buio e arriva in campagna col giorno, “adesso ritorno che è ancora giorno ma arriverò a casa che sarà buio”; lo stesso fa Turiddu che “non ha neanche un mulo o una bicicletta”. Con le foglie di borraggine che raccoglie lungo la trazzera, Francesca prepara la cena: frittelle di borraggine, formaggio, pane e vino. Ieri sera: un piatto di cicoria, formaggio, pane e vino. Ricorda la sua infanzia a Galati, quando “non c’era niente da mangiare” e il suo pensiero va a nonna Nina: “le cose povere che avevamo da mangiare, con le sue mani, sapeva farle diventare preziose”. L’ansia quotidiana della ricerca di cibo viene illustrata da immagini nitide e veritiere.

Da allora sono trascorsi sessant’anni e, a mano a mano che procedevo nella lettura del libro, scorrevano davanti ai miei occhi le persone che - nel bene o nel male - hanno segnato quegli anni della mia vita; ho ritrovato altresì le stesse struggenti delusioni patite da noi militanti di base rispetto al nostro partito (socialista quello di Carnevale, comunista quello mio e dei miei compagni) che puntano in modo irrefutabile alla continuità della logica che condusse alla débacle successiva dei partiti di sinistra: infatti, tranne rare eccezioni, i nostri dirigenti si dimostravano ben poco interessati alle lotte della loro base e assai più alle dinamiche dei vertici partitici. Lo dice lo stesso Salvatore al congresso socialista con parole inequivocabili che vengono ricordate al convegno organizzato dalla Camera del Lavoro di Palermo in occasione dell’anniversario della sua morte: “Ho la sensazione che io vivo fisicamente sul campo di battaglia e sento nella mia coscienza che in questa lotta contro la mafia, per il riscatto sociale dei lavoratori siamo soli, mancando una coscienza e una solidarietà nazionale”. Testimonianza tremenda che avrebbe dovuto mettere sull’attenti l’intera platea dei presenti ma che cadde nel nulla finché la mafia non decise di eliminarlo, lui Turiddu, già minacciato ripetutamente dagli sgherri di don Peppino. Era stato più volte avvertito:“Picca n’hai di sta malandrinarìa”; un altro, non meno esplicito, gli dice: “Talè, io ti voglio troppo bene, perché devi fare qualche mala morte? “Anche i compagni di Turiddu vengono minacciati: a Polizzi, un campiere della principessa Notarbartolo ricorda la fine che aveva fatto qualche mese prima un contadino: era stato ammazzato legato a un mulo e trascinato per la campagna.

Turiddu si fidava delle istituzioni e sosteneva che le minacce andavano denunciate ai carabinieri in quanto questi rappresentavano lo Stato anche se, da che parte stava lo Stato a Sciara,Turiddu ne era ben consapevole: i carabinieri - ospitati in una proprietà della principessa Notarbartolo - rifiutavano di verbalizzare le sue denunce, intimidivano i contadini che andavano a scioperare e il maresciallo di Termini andò fino a dirgli: “Sei il veleno dei lavoratori”.

Leggendo tali propositi, è riaffiorata nella mia mente la risposta che mi diede il maresciallo dei carabinieri di Caccamo quando gli chiesi di accompagnarmi sul feudo Ciaccio per dare manforte e legittimità ai mezzadri che chiedevano l’applicazione della legge sulla divisione dei prodotti: “Non ci vengo e dica a chi la manda che è un fetente”. Gli risposi che allora fetente era lui e me ne andai sbattendo la porta. Succedeva sette anni dopo l’assassinio di Turiddu.

Un comunista ha il dovere di studiare e lottare, mi aveva insegnato il segretario della Camera del Lavoro di Palma di Montechiaro, Angelo Scopelliti, prima ancora che mi iscrivessi al partito comunista. Spesso mi sono chiesta: a Turiddu Carnevale chi glielo insegnò? Eppure, ci dice Francesca che ogni sera lui leggeva il giornale e studiava, cercando nel dizionario il significato delle parole che non capiva e diceva che bisogna coinvolgere le persone, parlare con i contadini e spiegare che la legge è dalla loro parte e che i loro diritti devono essere difesi e tutelati. Anni dopo, nel processo contro i suoi assassini, il suo avvocato ricorda il suo ricorso esclusivo e pignolo ai mezzi legali.

Nel mettere in risalto queste espressioni, Franco Blandi coglie un aspetto spesso sottovalutato delle lotte di quegli anni: l’acquisizione della cultura del diritto, dei diritti da difendere sempre perché le conquiste democratiche non sono mai definitive. Salvatore Carnevale a Sciara, Filippo Intili a Caccamo e come loro chissà quanti altri, “li mangia picca cu’ lu sciatu ciusu” nella Sicilia degli anni ‘40 e ‘50 capirono che il diritto è un terreno della lotta di classe, e quindi ogni passo avanti, ogni singola conquista non solo apre la strada ad un altro diritto ma migliora l’intera società.

Anche a Caccamo la presa di coscienza politica e umana vissuta insieme ai miei compagni di partito, il legame profondo che si formò tra noi, coscienti di essere comunisti e finalmente fieri di poter camminare a testa alta, venivano alimentati dalle nostre conquiste intellettuali (a me sembrava di farne di più a Caccamo con i miei compagni, spesso analfabeti, di quante ne avessi fatte nei miei studi universitari), mentre per i miei compagni era la scoperta liberatoria di poter spaziare al di là delle miserie quotidiane, di investirsi di responsabilità collettive, di ragionare sulla mafia e sulle leggi a loro favorevoli e che non venivano applicate. Le leggi, appunto, quindi il diritto.

Uno dei pregi - e non il meno importante - del libro è rappresentato dal linguaggio usato dai protagonisti: lo vediamo articolarsi in registri diversi a seconda di chi parla e del contesto in cui si svolge il dialogo. Dalle parole usate da Francesca nel raccontare la sua vita rimane la vivida impressione di averle ascoltate anziché lette: l’uso che fa del dialetto fino all’assassinio del figlio Turiddu, quando lo trova riverso a terra coperto da un lenzuolo e lo riconosce grazie ai calzini che aveva lavato la vigilia, non lascia dubbi sull’autenticità dei fatti. Una scena lacerante, un atto di violenza estrema che catapulta Francesca in un ruolo nuovo: lei, contadina analfabeta, si erge al di sopra del suo quotidiano fatto di omertà e di paure e denuncia per nome i mafiosi che hanno ucciso suo figlio. Da quel momento in poi, tranne qualche dialogo con parenti e amici, Francesca si esprime in italiano e il passaggio dal dialetto all’italiano è un momento dirompente del libro in cui primeggia l’intransigenza di Francesca nel denunciare gli assassini del figlio; ed è lo stesso concetto e la medesima parola “intransigenza”, appunto, che sceglie Carlo Levi per descrivere Salvatore e la sua tenacia nell’andare avanti, noncurante delle minacce mafiose, e persino dell’assassinio cruento di Filippo Intili, il mezzadro comunista che era andato da lui pochi giorni prima per parlargli di uno sciopero di mezzadri che stava organizzando a Caccamo.

Bene fa Franco Blandi a ricordare che Ignazio Buttitta scrisse il suo ”Lamentu pi la morte di Turiddu Carnivali” subito dopo l’assassinio di Salvatore, una ballata emozionante che racconta la vita di Turiddu, la sua determinazione inflessibile nel combattere la mafia, l’amore e l’angoscia della madre Francesca. Il cantastorie Cicciu Busacca la portò in giro per i paesi suscitando ovunque una forte e commossa partecipazione del pubblico e fu per questa ragione che la piazza di Caccamo gli fu vietata da don Peppino Panzeca. Seguirono anni carichi di novità: l’affermazione del partito comunista, l’assenza del Panzeca costretto alla latitanza. Nel 1963, in occasione della chiusura della campagna elettorale regionale, invitammo Cicciu Busacca a cantare la ballata nella piazza di Caccamo, mantenendo segreta la sua venuta fino all’ultimo momento. Stavano scemando gli applausi al comizio del senatore Li Causi quando si levarono le note della chitarra del cantastorie. La piazza gremita ammutolì. “Veni lu jornu che scende lu messia: il socialismo, con le sue ali di manto, porta pane, pace e poesia” cantò Cicciu Busacca: il messaggio di fondo con il quale Turiddu incoraggiava i braccianti.

La ballata di Buttitta ebbe l’effetto di far conoscere Salvatore Carnevale e la sua storia dentro e fuori la Sicilia. Adesso il testimone passa a “Fancesca Serio, la madre”, la storia dell’eroina umile che seppe combattere i potenti.

Vera Pegna









Grazie di vero cuore al prof. Giuseppe Fontanelli, professore associato di Letteratura italiana moderna e contemporanea presso il Dipartimento di Civiltà antiche e moderne dell’Università di Messina, per il saggio approfondito che ha voluto dedicare alla mia opera sulla rivista letteraria "Dialoghi Mediterranei".  Puoi leggere l'articolo a questo link

«Lo cerco nelle sue cose»: la madre di Turiddu Carnevale in un romanzo di Franco Blandi

di Giuseppe Fontanelli


In Appuntamento a La Goulette. Le assenze senza ritorno dei 150.000 emigrati italiani in Tunisia, che investiga soprattutto le ragioni di un’emigrazione di siciliani a La Goulette, nei pressi del porto di Tunisi, per dire che l’integrazione tra gli uomini è possibile (e dall’interno di una tecnica della testimonianza, dell’intervista – come quella al giovane attore e regista, Haykel Rahali –, che dimostra già la predilezione per partiture biografiche generate da un’esigenza cogente del vero)[1], Franco Blandi, fotografo e documentarista, esperto di arti visive, torna a esplorare il mondo delle classi del popolo dimenticate, della cultura considerata a torto subalterna.

Un’esplorazione che, in linea con l’impegno a far emergere la dignità del lavoro calpestata, si avvale di un più rigoroso impianto saggistico approdando a un testo, Vittorio De Seta. Il poeta della verità [2], che coinvolge appunto nella sua strategia costruttiva il regista Vittorio De Seta, maestro insigne del documentario di ispirazione zavattiniana, al quale Vincenzo Consolo, rivedendo i cortometraggi del Mondo perduto, assegna il ruolo di scopritore autentico della «Sicilia nobile della ‘Fatica nelle Mani’», in alternativa all’idea di «una Sicilia solo archeologica» che era stata, per lo scrittore, la visione intellettualistica della sua giovinezza.

Proprio l’incontro tra i due siciliani, il palermitano De Seta e il santagatese Consolo, il 14 dicembre del 2008, funge da occasione ideativa di un’opera che, con una ricognizione attenta, mostra il vasto viaggio intellettuale di un documentarista volto ad allontanarsi dal cinema d’intrattenimento, sugli esempi della nudità di ripresa di Robert J. Flaherty, Joris Ivens, Dreyer, e con l’ausilio – per essere il vero cantore della civiltà emarginata di contadini, pastori, pescatori e minatori –, di studiosi di musica popolare quali Diego Carpitella e Alan Lomax. Si tratta per Blandi di una prova che precede il suo primo romanzo, Francesca Serio. La madre [3], nel quale mette al centro dell’enunciazione narrativa – tenuta in chiave diaristico/autobiografica – la figura della madre di Salvatore Carnevale (il sindacalista trucidato dalla mafia dei feudi, a Sciara), Francesca Serio, rilevandola nel duro lavoro dei campi (tra mietitura, trebbiatura del grano e raccolta delle olive, nel difficile compito di custodire una dignità che si vuole oltraggiare).Un apprendistato saggistico, quindi, che si rivela presupposto necessario per una svolta verso il racconto, che da quella esperienza di scrittura ricava snodi e soluzioni peculiari.

Da un lato le implicazioni hanno un raggio d’azione di natura tecnica, che riguarda la voce del narratore, il quale, senza travalicare deve muoversi in armonia con inquadrature che sono esse stesse linee guida per il racconto; un racconto consegnato alla «ricerca costante di equilibrio, tra le fonti storiche e la narrazione»[4]: viene così compulsato l’archivio storico parrocchiale per risalire alla verità dei nomi della madrina di battesimo del sindacalista, dell’arciprete, della levatrice, ed entrano in circolo fonti bibliografiche che spaziano – dopo l’assassinio di Turiddu – dal riporto di brani tratti dai giornali del tempo, alla pragmatica assimilazione di testi fondamentali quali quelli di Giuseppe Oddo, Tra il feudo e la cava: Salvatore Carnevale e la barbarie mafiosa, e di Umberto Ursetta, Salvatore Carnevale. La mafia uccise un angelo senza ali [5]. Dall’altro lato, il piano di interazione riguarda chiare istanze di tipo etico, quando, ad esempio, nell’analizzare un documentario del 1955 di De Seta, Parabola d’oro, il linguaggio usato diviene fondativo di competenze destinate a trovare sbocco nel romanzo, suggerendo una modalità di recupero di aspetti paesaggistici e ambientali densa di risvolti socio-politici. Emerge così il senso di una «bellezza» (in De Seta toccata da richiami dostoevskijani) che, a causa dello sfruttamento perpetrato nei feudi, si capovolge nel suo opposto, nella durezza di una fatica senza riscatto. Ed è come se, nel Blandi di Francesca Serio, il piano/sequenza di Parabola d’oro, con la ritualità ciclica del grano raccolto, il lento procedere dei muli carichi di sacchi, e, in lontananza, il frinire delle cicale, il rintocco delle campane, nella giornata di lavoro che volge al tramonto – elementi topici del romanzo sottoposti, sin dalla prime pagine, a un continuo sondaggio –, fosse investito a ritroso dall’incombenza di un pericolo che, nei due documentari di De Seta del ’54, si situa tra il nero della miniera di Surfatara, con il rumore dei carrelli e delle presse automatiche, e la minaccia alla vita dell’uomo (costretto all’emigrazione) espressa dal fuoco eponimo dello Stromboli di Isole di fuoco.

Così, in omologia con un discorso critico che, per Parabola d’oro, assume pure i caratteri di un inconfondibile accordo narrativo (nella luminosità del descrittivismo didascalico):
«Le falci, mentre mietono il grano, sembrano prolungamenti delle braccia, i muli con i loro zoccoli si muovono lentamente sulle spighe raccolte, l’attesa del vento, che puntualmente arriverà, aiuterà a “spagliare” il raccolto. Le donne, con gesti decisi ma armonici, sono impegnate nella cernita del grano, i pesanti sacchi vengono caricati dagli uomini sui muli. Il canto delle cicale, il canto degli uomini, le loro voci, il suono del vento, creano una sinfonia del reale che da sola diviene racconto, testimonianza, poesia. Si conclude la giornata con la fila di uomini e muli che al tramonto tornano verso casa»[6],

la mietitura, che fa da scenario all’avvio del romanzo, e che vede coinvolta tutta la famiglia Carnevale – con Francesca angolata nella difficile condizione di una donna sola in attesa del figlio: «“Bonu, bonu! Stu figghiu u criscemu u stissu. Cu patri o senza patri!” […] interviene mia nonna»[7] –, emblematicamente attesta tutti i suoi nessi. Vale a dire i legami di un racconto che, nel custodire l’interezza del peso etnologico e antropologico, si dirama altresì a far risalire la nobiltà di un patrimonio di cultura insostituibile per l’equilibrio tra uomo e natura, se non fosse avvilito dall’abuso dei padroni che possiedono le terre e dalla violenza mafiosa dei “campieri” che le gestiscono.

Dalla voce di Francesca Serio, che racconta la sua storia di lavoro e di emigrazione – ché è tale la partenza dalla natìa Galati Mamertino per andare a Sciara a lavorare nei feudi della famiglia Notarbartolo [8] –, il corredo dei segnali, che fu di Parabola d’oro, si stampa con netta evidenza, circoscrivendo un perimetro contadino felicemente annodato alla ritualità dei suoi gesti. E così, nel brano qui di seguito citato, basta un aggettivo, “esausti”, ad aggiornare, sul versante della sopraffazione, un’azione descrittiva che ha l’insito fascino di un primitivismo colto alle origini, allorquando, sotto il punto di vista della “madre”, che, nonostante una difficile condizione coniugale, custodisce le sue dolcezze (veicolate dal verbo “Mi piace”), Blandi scioglie in narrazione ciò che dapprima, nei tanti luoghi del suo libro su De Seta, si era presentato come pratica di un saggismo riflessivo:
«Giacomo, mio marito, non è venuto […] Tre muli girano veloci sulle spighe ormai ingiallite e secche, incitati dalla voce dell’uomo che in una mano tiene le redini e nell’altra una zotta che ogni tanto fa scoccare vicino al corpo delle bestie. Mi piace il rumore degli zoccoli sulle spighe che si spezzano. […] Oggi per fortuna c’è vento e si può cominciare subito a spagghiari […] Ora è il turno di noi donne. Munite di criu, cominciamo a cerniri il grano per eliminare le impurità […] Inginocchiati in mezzo al grano già pulito, alcuni uomini insaccano il frumento con il munneddu, riempiendo grossi sacchi. Il sole è ormai calato verso il mare, dietro le montagne lontane. Una lunga fila di muli carichi di grano e di altrettanti uomini esausti scende lungo il sentiero che porta a Portella Gazzana, poi a San Basilio e quindi a Galati Mamertino» [9].

Il brano è rivelatorio della torsione autobiografica assunta dal narrato, che, nella permanenza dei dati precisi del lavoro connessi alle tracce dialettali di “spagghiari” e “cerniri”, sincronizzati su quello che nell’italiano di Parabola d’oro era “spagliare” e “cernita”, e con il di più della certificazione idiomatica di “zotta”, “criu”, “munneddu”, rivela a pieno titolo la veridicità della voce di emittenza, costituita da una contadina analfabeta interrogata nella drammaticità delle sua storia. Una contadina a cui però lo scrittore, gareggiando con sofferta intensità, regala il dono della lingua italiana, strettamente funzionale a trasmettere meglio, e a un più largo uditorio, il suo messaggio: scelta, nella conduzione narrativa, che tuttavia non tradisce mai il confronto con l’ambiente di partenza, soprattutto nell’accordare le componenti di una compartecipazione domestica che, affidata sempre all’intimità del dialetto («“Nanna, vossia mi non avi pinzeri. Nun ci stamu partennu pa guerra. Ci promettu chi stamu attenti” risponde prontamente Nino»; «“U vidisti ’a soru, ristammu nuatri dui sulitti” “Veru è, accussì vosi ’u Signuri” rispondo abbassando lo sguardo»)[10], finisce per reggere un altro elemento fondamentale del romanzo; il quale, non a caso, come in un organismo sigillato e armonico, si apre e si chiude con le storie, quasi parallele, dei fratelli di Francesca Serio, Nino e Calogero, seguiti, nei loro vincoli familiari, dalla giovinezza fino alla morte.

Al dialetto è poi affidata la chiusura del testo, di necessità tramato di un alto grado drammatico, che vuol dire, man mano che la storia si svolge, la disputa con le continue minacce che gravano sull’attività di sindacalista del figlio; nella complementarità di un percorso, spontaneo e irrefutabile, che, per Francesca, assume il valore di una crescita umana e politica in cui definitivamente riconoscersi. In tal senso, la radicalità nel fronteggiare i nemici di Salvatore, la sua indefessa ansia di giustizia, che la vedono accusatrice implacabile all’interno di aule di tribunale, con un pragmatismo di ricostruzione dell’insieme di straordinaria efficacia, ha la sua genesi in un legame viscerale, che proprio il dialetto rende nelle sue più autentiche scelte, aguzze impellenze.

Dopo un sondaggio meticoloso di lettere, documenti, attenzione agli stessi atti processuali (su cui torneremo), che vedono “la madre” assicurarsi un piano fecondo di sviluppo aperto pure, nella vecchiaia, a intendere gli eccidi di Peppino Impastato, Mauro Rostagno, Rosario Livatino, Libero Grassi, non suona, dunque, altisonante, la chiusura del romanzo: con quell’abbraccio del figlio morto che accoglie la madre nella deliberazione icastica della loro lingua domestica. Anzi, dopo tante divisioni, partenze, ritorni, che si sono risolti nell’eccidio di Salvatore per mano mafiosa – e che passano nella voce ‘diaristica’ della madre con lo scopo di imprimere una corrente vitale più umile, raccolta, quanto tenace e implacabile, a custodire un dolore che serve a non dimenticare i fatti, le persone che hanno arrecato il male –, è proprio questa la cifra che riassume il senso di un destino e l’enigma alto su cui inscrivere il sacrificio del figlio.

Perché proprio nella scoperta passione (e risalto) per il dialetto delle origini, al di là dei dibattiti politici, le requisitorie ideologiche e giuridiche, le approssimazioni intellettualistiche di partito, con le pur utili celebrazioni e i convegni, si connota il valore di una testimonianza dal basso che, inestimabile, proprio qui, in questo circuito delle parole del popolo, trova la sua segretezza e penitenza più vera. D’altronde, Ignazio Buttitta, debitamente ricordato nel romanzo, suscitando reazioni a dir poco struggenti, l’aveva capito e reso con folgorante pienezza nella sua poesia del ’56, La morti di Turiddu Carnevali (“Sidici maju l’arba ’celu luci / e lu casteddu àutu di Sciara / taliava lu mari chi stralluci / come n’artaru supra di na vara; / tra stu mari e casteddu na gran cruci / si vitti ddamatina all’aria chiara, / sutta dda cruci un mortu, e cu l’aceddi / lu chiantu ruttu di li puvireddi”).

E Blandi, sulla scia di tale significativo modello, alla luce di una minuziosa ricerca, sensibile a mettere insieme le soluzioni di un italiano intriso dei succhi di una fenomenologia tutta popolare, che si è esercitata con un dispositivo di mantenimento di odori, sapori, cibi, trasfigurati in ultimo – nel momento del trapasso della madre – dal senso di un compiuto onirismo (con il figlio che ritorna a rendere più tangibile il motivo irrevocabile della “casa”, attorno a cui il romanzo ha aggregato tutta l’energia di una vita spesa per il bene degli altri), può anch’egli scrivere:
«“Talìa, talìa ‘cca. U vidi a ma figghiu ittatu ‘cca’ ‘nterra”
“Zà Francisca, stassi cueta chi nuddu c’è e peri du lettu!”
[…]
Pure Turidduzzu mi viene a trovare. Certe volte entra dalla porta, si ferma ai piedi del letto, mi saluta e poi se ne va. Altre volte lo vedo qui a terra, a faccia sotto, immobile. Forse dorme. Poi lo guardo meglio e vedo il sangue che gli scorre dalla testa che si impasta con la terra, con le mosche che gli girano intorno.
Una luce mi acceca, mi impedisce di vedere oltre. […] Il viso sbiadito di mio figlio diventa sempre più nitido. Sorride, gioia mia. Le sue braccia si aprono per accogliermi. Mi tuffo in quell’abbraccio, felice.
‘Ass’abbinidica mammuzza’
‘Turidduzzu, figghiu mia, ‘cca sugnu!”»[11].

Francesca Serio con il ritratto del figlio Salvatore

Questa prioritaria attenzione che abbiamo riservato alle soluzioni espressive del narrato, considerando da subito le pagine di avvio e di chiusura del romanzo, è pertinente a indicare il grado dell’impegno di un autore che, per un verso, sotto il profilo ideale, organizza i suoi tracciati lungo un’appartenenza al genere delle ‘storie di vita’ (un’eredità della temperie neorealista mediata dalla ricorsività del verbo dire: «Mio figlio dice»; «Dice che se i mafiosi stanno avendo questa reazione è perché […] Qui, a Sciara, dice, non c’è un palmo di terra libera che possa essere data ai contadini […] e noi, dice, sappiamo bene chi sono»)[12], che si adempiono ora, con una lunga gittata, sugli effetti dell’autobiografismo popolare della Scuola di Pieve Santo Stefano: come dire che il sistema indiretto delle ‘storie di vita’ di Dolci, Montaldi, Passeri, Vallini, s’incontra con il più autentico, personale armeggiare con il dialetto proprio delle esperienze, ad esempio, di Margherita Ianelli, Francesco Stefanile.

Il romanzo, d’altro canto, proprio perché non si tratta né di competere né di accreditarsi con la scrittura dell’uomo comune, chiamato (e spesso costretto per esperienze vissute al limite) a narrarsi [13], tiene presenti queste esperienze, ne consulta le insorgenze più drammatiche, la pronuncia radicale del conio linguistico, travalicandole. Blandi conosce l’azione forte che viene da un certo territorio di emarginazione, il più vicino a inchieste che meglio lasciano esplodere lo scontro, le discriminazioni sociali; ma, disposto a catturare il fatto, la creatura, il personaggio, in risposta ad altre direzioni di ricerca, non rispetta – dell’universo preso a prestito, e a cui non vuole sovrapporsi – l’integralità del canone linguistico. Insomma, la scrittura di Terra matta può essere appannaggio solo di un Vincenzo Rabito, che nell’intrico del suo stesso idioletto non può tollerare altre ipotesi di scrittura. Così, l’autore va in direzione di Francesca Serio, partecipa al suo dolore, ne ricostruisce le offese assumendone la voce, il profilo di donna energica, alternativa, che combatte contro l’omertà, facendo i nomi dei mafiosi nemici del figlio – e, vista l’accorta durata dell’investigazione a tutto tondo, rigorosa nel colmare i tasselli di tanti giorni e anni, non si tratta, quando il dialogato in dialetto s’accampa, di un’infeconda imitazione («“E ch’aveva a fari? M’ava stari muta? Tu u sa a Sciara tutti u sannu cu sunnu iddi! Si mi stava muta, u ‘mmazzava nautra vota a ma figghiu”»)[14].

Ma, al tempo stesso, per salvaguardare un portato più ampio, che via via si addentra a contenere l’osservazione di una problematica dai pressanti risvolti politico-culturali, in cui già circola, sia prima che dopo la morte di Salvatore, la reattività di un piano del dialetto da trasferire in altre sedi – come, quelle, ad esempio, del tribunale, dove Francesca, di fronte al Procuratore generale della Repubblica di Palermo, Ignazio Messina, firma un Esposto redatto in italiano[15] –, Blandi affida “la madre” al registro espressivo di fondo dell’italiano, pur modulato su andature regionalistiche. Attraverso il quale, per di più, appresta un’altra consona direttrice del romanzo, rappresentata dal documentare e rievocare la crescita intellettuale di autodidatta di Turiddu, rilevato spesso nell’atto di leggere giornali e consultare vocabolari: dopo che un iniziale inquadramento del suo percorso lo vede, con i primi guadagni di lavoro nei campi, prendere il diploma di licenza elementare e partecipare a un concorso in polizia e a un altro come autista militare.

La madre, che si spinge fino al primo giorno di scuola, per distillare quel motivo del “sorriso”[16] destinato a divenire il tratto distintivo di un rapporto, contrae questo indice di garanzia culturale («ma poi lo sentivo leggere e scrivere fino a quando non mi addormentavo»)[17] quale manifestazione di un deciso orientamento etico; e, riallacciandolo al grande nucleo coesivo dei legami familiari, della casa, sulla prospettiva – che fu del libro su De Seta – del rinnovamento ecologico, di cui sono portatrici le classi subalterne («Stanotte ha piovuto e siamo tutti a casa […] Papà, seduto a terra si è messo a fare un paniere. Ai suoi piedi ci sono due mazzi di verghe di ulivo e di salice […] La mamma mi aiuta a rammendare vecchi pantaloni. Turidduzzu, seduto sul letto, legge un giornale»), lo rilancia a segno di un giudizio sulla lotta tra le classi. Qui postulata sul coagulo dirimente (e infine catartico) della scuola, del leggere, riassunto nella totalità simbolica del vocabolario. Ecco una rapida tavola esemplificativa:
«Eccolo che arriva correndo! Tutto eccitato, entra dalla porta come un fulmine.
“Turidduzzu, come iu a scola, ti piacìu?”
“Vossia sempri m’ava a mannari. A mia a scola mi piaci!”
[…]
Salvatore è ormai un giovanotto e da qualche anno lavora in campagna con mio cognato Francesco. La scuola gli piaceva, ma ha fatto fino alla terza elementare»[18].
«Abbiamo cenato in fretta. La sera, Turidduzzu non vede l’ora di finire di mangiare, così si mette a leggere. Giornali, libri, riviste, pure un vocabolario si è fatto prestare, così quando non capisce una parola, la cerca […] Tutto sa. Quello che fanno alla regione a Palermo, al parlamento a Roma. Pure i discorsi che fanno gli onorevoli si legge. Mi parla del governo di Ferruccio Parri, di quello di De Gasperi, della costituente e di altre cose che non capisco»[19]
«Passa sempre le serate leggendo libri e giornali […] Sul tavolo non manca mai il vocabolario e ogni volta che non capisce una parola la va a cercare, e quando la trova, mi dice il significato. Lui me lo dice e io me lo scordo, e quando storpio le parole lui si sciala a ridere.
I contadini di Sciara hanno capito, finalmente, che solo con le lotte si ottiene qualcosa»[20]
«Da quando è tornato [da Montevarchi] non sta un attimo fermo. La mattina va a cercare un’occupazione, il pomeriggio alla Camera del Lavoro e poi alla sezione del partito, la sera legge e studia. Organizza incontri, riunioni, si è messo in testa che l’attività deve riprendere come e meglio di prima. I terreni che la principessa deve ancora cedere sono oltre cinquecento ettari e intanto i contadini muoiono di fame»[21].

E si capisce come quelle che diventeranno voci/tema con un elevato impatto simbolico – fino al punto da poterle privilegiare in ultimo quali icone di un sofferto procedere, un piano selettivo attorno a cui far coagulare l’andamento dei fatti, lo spirito più segreto di una vicenda che diventerà di storia nazionale – abbiano in realtà all’inizio il sapore di cose comuni: si articolano nel complesso della frase a fare solo da coronamento ai vari acquisti conoscitivi che sono della naturale crescita del contadino Carnevale. Il romanzo vive di tale naturalezza, del variare degli sfondi ambientali perennemente uguali nel ripetersi delle stesse azioni, del circoscriversi di comuni vicende dentro la voce assidua di una madre che racconta e cerca un significato a qualcosa che le è superiore, sia sul piano più puramente biografico – ché non può trovare requie il dolore innaturale di chi perde un figlio assassinato da malavitosi – sia sul piano della consapevolezza ideologica di un Socialismo introiettato per inoculazione per così dire obliqua, fatto transitare com’è per via empatica, umorale, di vicinanza a quello che è per antonomasia l’amato “Turidduzzu”.

Ed è appunto tutto questo inesorabile, lenticolare immettere piccoli dati del sopravvivere, legati alla durezza del lavoro e all’esistere nel circoscritto perimetro familiare («Le mani nere mi sono diventate. Da stamattina non so quanti sacchi di fave ho raccolto. In questo pezzo di terra tutto io ho fatto: prima ho zappato il terreno, poi ho seminato…»)[22], a far sì che lo scatto iconico diventi poi, sul versante paradigmatico, più resistente, duraturo, rastremato in apice; e quella che era una semplice occasione, tanto sul piano dialogico quanto sul piano dei fattori ambientali, delle cose che si avvicendano, può proiettarsi a emblema di una vicenda di riscatto e di morte dal valore universale. Su questa linea d’intervento, in prima istanza, possiamo collocare, accanto al motivo guida del “sorriso”, il “vocabolario” di cui abbiamo detto, “i quaderni degli appunti”, “gli stivali pieni di fango”, la “bandiera” (servita per l’occupazione pacifica dei feudi), le stesse “calzette” che la madre, in un crescendo drammatico, riconosce ai piedi del figlio morto [23].

Come pure, dall’interno di una società contadina rilevata sui dati della “festa”, dei riti cristiani della Pasqua, con un Turiddu Carnevale che sente compartecipe della sua lotta per l’occupazione delle terre Padre Nuccio (deceduto d’infarto per le minacce subite dai mafiosi) [24], particolare rilevanza assume il motivo della farina, «gialla come l’oro»[25], della pasta messa a lievitare, del pane che, con il suo “profumo”, ci dice che se il chicco non muore non produce frutto. Il romanzo attua una correlazione sottile tra il figlio e il ciclo del grano, della mietitura, della parabola del pane giunto al suo punto di cottura, a segno di un sacrificio che il giovane sindacalista ha affrontato con piena consapevolezza, colto com’è in una ripresa di parole che non lasciano dubbi: «“Allora, gli ho detto, venite tu e i tuoi amici e mi ammazzate! Però ci vai a dire a questi amici che ti hanno mandato, che, quando ammazzano a me, ammazzano a Gesù Cristo!”»; «“Ricordati, caru Vastianittu – risponde Salvatore – che se caduti ci saranno tra i socialisti, io sarò il primo!”»[26]. E quando il calore vitale di un rapporto fatto della “voce” e del “profumo” del figlio, con assiduità, è reso attivo dalla fusione con l’atto di sfornare il pane della madre («la voce di mio figlio arriva veloce mentre sto sfornando l’ultima forma di pane. […] e la casa si riempie di profumo»)[27], non è senza significato che, proprio su tali interazioni, a un mese dalla morte, la parte di diario del 4 aprile 1955 inizi con questo indicativo referente:
«Sotto le coperte il pane è cresciuto abbastanza, si può mettere a cuocere […] Su ogni pagnotta, con il coltello, faccio il segno della croce […] Dico sempre una preghiera mentre inforno, poi chiudo e aspetto che cali la rosa»[28].

Così, in una strategia degli indizi che, all’avvio del racconto, ha visto Francesca correre in soccorso del piccolo Salvatore insidiato da una «serpe nera»[29], e dall’interno del sogno premonitorio della madre, bollato come superstizione dal figlio («“Vossia perché pensa a queste cose; non ci deve credere ai sogni, sono superstizioni queste”»)[30], è il giorno della morte del giovane, il 16 maggio 1955, a connotarsi ancora di una simbologia del pane orientata ormai verso più incontrovertibili esiti drammatici:
«Spiano la pasta, la riprendo ai lati, la ripiego e la rimpasto coi pugni. Ora è morbida e uniforme, la lascio riposare prima di fare i pani e metterli a lievitare sotto le coperte. Intanto esco a prendere la frasca che mi servirà per accendere il fuoco nel forno. Le stelle non si vedono quasi più, la luce le ha cancellate e il cielo comincia a colorarsi di rosa e di azzurro.
Il pane è sotto le coperte a lievitare quando dalla porta entra mio cognato Francesco. Ha la faccia bianca come il latte.
“Dov’è Totò?”» [31].

Programmato sul momento costitutivo della ‘calata della rosa’, che è la suggestiva metafora contadina che segnala il momento giusto in cui il pane va sfornato, si tratta di un cromatismo paesaggistico – suggerito dal ‘colorarsi di rosa del cielo’ – che ha dietro un’altra logica, creaturale, atta a contenere e elaborare, in maniera prescelta, da questo momento, il tema del ‘sacrificio’, oltre i ristretti confini del paese di Sciara, di Salvatore Carnevale [32]. Infatti, dopo il “sogno pericoloso” [33] della madre, e con la drammatica morte del figlio, che assomma in sé prepotentemente i segnali sinistri disseminati nel testo, e che riguardano ora il motivo dello “scomparire”, quale unità di catalisi di un’altra ben più definitiva scomparsa («Si allontana con la bicicletta portata a mano. Alla fine della salita monta in sella e lo vedo scomparire dietro l’angolo»)[34], ora il rimarcare il piano dei presagi giudicati su voci come destino, tornare, partire, inverno, su cui scende un sapore particolare (addirittura, per alcune, contrario alle intenzioni espresse: «Non mi pare vero. Turidduzzu è qui con me, è tornato per restare e non andrà più via»)[35], il romanzo prende un’altra svolta, e si avvia a determinarsi sul tratteggio di un’eroicità resa più acuta dalla nuda essenza delle povere cose che l’hanno generata.

La sequela degli oggetti su cui prima ci siamo soffermati entra nella sfera d’azione del distacco, della lontananza, proponendo già nella ricezione di un dolore capitale, senza estinzione, il contrasto del contrassegno simbolico, che certifica e sollecita l’entrata di Carnevale nel linguaggio mitico dei veri operatori di giustizia. Carnevale diventa un’altra cosa, appartiene a un altro regno. Ed è la madre, sul privilegio anche di mediazione di tanti uomini di cultura e di partito, tra cui spicca la parola di Sandro Pertini («“Turiddu è sempre qui con noi e con la sua cara mamma. Lui è diventato un esempio e una bandiera per noi, che sventolerà libera nel cielo, per sempre”»)[36], a cominciare ad attuarne involontariamente il passaggio, circoscrivendo sia il piano degli oggetti, già promossi al grado di reliquie:
«Ho la testa che mi scoppia e il cuore secco, asciutto, come i miei occhi. Mi guardo intorno. Lo cerco nelle sue cose: i vestiti, le scarpe buone dietro alla porta, i quaderni ancora sul tavolo, i giornali accatastati uno sull’altro, i libri con i fogliettini tra le pagine per segnare le cose da approfondire, il vocabolario con le parole sottolineate» [37];

sia il senso di un’avventura umano-politica che, nel suo rigore, davvero incorruttibile, si allunga su tante inadempienze, a cominciare da quelle della stessa Francesca. Si costituisce a quest’altezza qualcosa che fa rassomigliare il testo di Blandi – una nobile convivenza di princìpi – alle promesse che s’agitano nella Madre di Gorkj (con la vecchia Pelageja Vlasova che a poco a poco fa sua, fino al martirio, l’idea rivoluzionaria del figlio, esiliato in Siberia):
«Giunto davanti alla Camera del Lavoro, il corteo si ferma. Ci sono esposte le bandiere a lutto. Guardo la porta di quella stanza, messa a disposizione da Polizzi, dove tra la polvere e le galline Turidduzzu ha passato tante serate a discutere con i compagni. Lì ha sperato che i contadini potessero finalmente avere riconosciuti i loro diritti. Non avevo capito l’importanza di quelle lotte. All’inizio gli dicevo di lasciare perdere, di non mettersi in prima linea. Poi, a poco a poco, ho capito che quelle battaglie erano pure le mie. Per noi contadini ci volevano non uno ma cento Salvatore Carnevale e io, che sono sua madre, non lo avevo capito»[38].

Francesca Serio ai funerali del figlio (da L’Ora)

Prima di giungere al nodo cruciale della morte di Turiddu e di rappresentare quanto accade nelle ore successive, con il coinvolgimento delle massime autorità di partito (da Angelo Ganazzoli, a Giorgio Napolitano, Sandro Pertini, Pio La Torre) e dei contadini di Sciara, che conferiscono al racconto un ritmo corale («Il corteo s’ingrossa sempre di più. La gente, quando vede passare la bara con mio figlio, fa il segno della croce e si aggiunge agli altri. Alcune donne s’inginocchiano, altre guardano nascoste dietro alle finestre»)[39], La madre, sotto questo versante, è la presa di coscienza, dolorosa e progressiva – «e io, che sono sua madre, non lo avevo capito» –, di una donna che osserva il piano delle minacce crescere, spaventoso, attorno al figlio, fino a soffocarlo; e si riserva l’impegno devoto, quasi ascetico, di ricordarle, di trascriverle in una appassionata pratica di fissaggio della parola che racconta. Utile poi a giornalisti e scrittori, e agli avvocati al processo, per interrogare le valenze oscure dei personaggi che vollero la morte del giovane sindacalista.

E in questo palcoscenico degli orrori, tra i primi si accampa il soprastante della principessa Notarbartolo, Luigi Tardibuono (poi condannato e morto in carcere), ripreso in una serie continua di frasi che servono a intimorire sia l’amico di Salvatore, il Polizzi («“Così è. Se no, mi pare che tu vuoi farti trascinare da un mulo” ricordandogli la fine che aveva fatto qualche mese prima un contadino che era stato ammazzato proprio in quel modo: legato a un mulo e trascinato per la campagna»)[40], sia il Carnevale («Mi disse: “Lo vedi che ha guadagnato tuo figlio? Tutti si colgono le olive e tuo figlio se ne andò in galera”»; «“dicci che si leva di stu’ partitu disgraziatu. Questo non è un partito buono, è un partito di disordine, un partito che porta a mala via. Perché qualche volta deve andare a finire malamente? Se si leva da questo partito ha la meglio terra e la meglio tenuta; e ora, vedi, è in galera” […] Dice: “Talè, e perché si deve fare ammazzare qualche volta da qualcuno”»?) [41]. Un valore testimoniale che Blandi nelle Note riconduce alle sue dirette fonti, ricordando il volume di R. Carli Ballola e G. Narzisi, Il grano rosso [42] e l’Esposto di Francesca Serio al procuratore Generale della Repubblica di Palermo.

E nell’elenco dei nomi che sfilano accanto a Turiddu, quasi una inquadratura che ne fissa con minuzia i volti – «“Oggi ci siamo riuniti a casa di Polizzi. In cinque eravamo. Io, Polizzi, Faso, Rotolo e il compagno D’Angelo di Termini”»[43] –, si realizza ne La madre al tempo stesso il recupero di una galleria di figure che finisce per fare del romanzo la storia più autentica del sindacalismo agrario siciliano d’avanguardia, aprendosi anche a ricordare, tra gli altri, Libero Lizzadri, Angelo Ganazzoli, presidente dell’Associazione dei Contadini, Francesco Cardella e Giuseppe Morreale della Camera del Lavoro. Nella strategia del racconto, lo scatto di una direttrice della consapevolezza, che spinge Carnevale a impegnarsi totalmente per far rispettare la legge Gullo e la riforma agraria, e che sconvolge con suggestive incursioni il recinto domestico della madre («Io come sempre sono rimasta ad ascoltare in silenzio accanto al braciere, non mi piace intervenire in queste discussioni. Dentro di me, però, sento bruciare qualcosa. Non so se è rabbia, paura o che altro. Apparecchio la tavola. I ceci fumanti, sono nel piatto. Ci metto un pochino di olio e di rosmarino»)[44], ha dapprima un suo efficace punto di rottura, un luogo emblematico di riferimento nell’apprestare la notizia della strage di Portella della Ginestra, quando, nelle parole dell’amico di Salvatore, Sebastiano Russo, transita la lunga teoria di “morti ammazzati” che hanno osato ribellarsi alla mafia. Accade che il fatto sia, sì, veicolato sul senso di disgusto, di selvaggia riprovazione di Carnevale nei confronti dei mafiosi assassini («Salvatore si alza in piedi: “Bastardi, bastardi! Sa pigghiano chi poviri cristi”») [45], ma, soprattutto, che la curvatura drammatica del racconto faccia convogliare al suo interno quei prodromi della “paura” della madre per la sorte del figlio che non sono più per niente leggibili sul piano delle premonizioni. Ora, non ci troviamo di fronte a segnali nascosti, destinati a inquadrarsi sul piano delle prefigurazioni funeree, perché già le pieghe del discorso lasciano intuire che la madre ha capito quanto i reali interessi di Salvatore, la sua indefessa ansia di giustizia, lo possono fare entrare in tale tragica galleria:
«Ascolto le loro parole in silenzio, spaventata. Sebastiano ricorda tutti i morti ammazzati che nei paesi vicini si sono messi contro i mafiosi. Il sindacalista Nunzio Passafiume a Trabia, Nicola Azoti che era il segretario della Lega dei Contadini di Baucina, il segretario della Camera del Lavoro di Sciacca, Accursio Miraglia. Anche due sindaci socialisti hanno ucciso: Pino Camilleri, sindaco di Naro, e Gaetano Guarino, sindaco di Favara […]. Non ho mai visto mio figlio così arrabbiato. Mentre parla, gli si ingrossano le vene del collo. Cammina avanti e indietro, senza fermarsi. Lo so che lui parla per il bene nostro, ma vederlo così mi mette in subbuglio e mi spaventa. Saluto e vado a letto. Li sento parlare ancora a lungo, poi la stanchezza mi prende e mi addormento»[46].

S’impone, come dicevamo, la lotta solitaria di un sindacalismo agrario d’avanguardia abbandonato a se stesso, costretto a misurarsi col nemico, solo avendo in cuore l’utopia del Socialismo delle origini, il quale finisce per essere un viatico per il martirio, vista la dismisura dello scontro con l’‘altro’ («la mala genti», «un pugno di delinquenti», «i mali cristiani», nella gestione di linguaggio di Francesca)[47] che ha all’attivo una spietata difesa dei feudi. Una consegna che si risolve appieno nell’ulteriore quadro drammatico di riferimento, prima della morte di Carnevale, rappresentato dalla polarità che assume la vicenda di Filippi Intili, l’amico barbaramente ucciso nelle campagne di Caccamo dagli uomini di don Peppino Panzeca.

Il nastro di scorrimento è lo stesso, e il fatto transita attraverso la voce della madre, che non tradisce le impressioni a caldo suscitate nell’animo irruento del figlio («un pugno sbatte sul tavolo») [48], né mitiga a sua volta la ferocia dell’esecuzione dell’Intili riflessa sull’intermediazione del compagno Polizzi («Lo hanno trovato non lontano da Sciara, sotto monte San Calogero, in contrada Margi. […] Polizzi dice che lo hanno ammazzato senza nessuna pietà. […] Quando è rimasto solo, gli assassini lo hanno raggiunto e ucciso a colpi d’accetta»). Ma è qui che maggiormente il romanzo attua le sue organiche strategie di ascolto, che tendono a sfaccettare l’icastica contiguità di partiture improntate sull’obiettività delle parole e dei fatti; e il viraggio è su una percezione del pericolo vistosamente acre, carico di orrore, e di terribile prossimità.

La madre, a distanza di sei anni, con il 1951 che vede l’arresto e il ritorno dal carcere del sindacalista per l’occupazione pacifica dei feudi, sul rincalzo che proviene dalla strage di Portella del 1 maggio 1947, inizia così a interiorizzare pienamente il carico di un conflitto che potrebbe portare a esiti estremi: «Solo pochi giorni addietro era venuto [Filippo Intili] a parlare con mio figlio. Stava organizzando uno sciopero dei contadini a Caccamo e voleva qualche consiglio»; «Mi alzo lentamente. Ho la testa confusa e un peso sul petto che m’impedisce quasi di respirare»[49]. Ed è nella preminenza di un tracciato che rovescia l’intimità della “casa”, della disposizione a narrare i pochi sapori che consolano («Le campane battono il mezzogiorno. Ho fatto la salsa con i pomodori che mi ha dato Carmela. Friggo una melanzana, così la mettiamo sulla pasta, con la salsa e la ricotta salata»)[50], che s’innesta il fotogramma di risoluzione definitiva, adatto a caratterizzare, nella verità dei fatti, la fondatezza di quello che era il piano delle premonizioni.

Francesca Serio

In risposta al grado zero di una scrittura che accorda pensieri e voglie alla severità amara di un luogo dominato dalla violenza (per cui ogni astrazione, sia la legge, sia la paura, la lotta, viene ricondotta alla sua assegnazione elementare, che ha la sua indifferibile sintesi nella concretezza dei “malandrini e mafiosi” e delle “olive”: «ma a Sciara non comanda la legge. Comandano i malandrini e i mafiosi, questa è la mia paura»; «Mi ha detto che quello che stavo facendo andava contro i miei interessi e che se avessi lasciato perdere la nostra lotta mi avrebbe fatto avere tutte le olive che volevo»)[51], in maniera emblematica, a questo punto, è rilevante che il complesso delle reticenze, delle inerzie, degli inveterati timori, trovi la sua più tragica equivalenza nella dispersione di un “corpo” abbandonato a se stesso:
«Ecco Turidduzzu che arriva con Sebastiano. Chiedo qualche notizia. Mio figlio è su tutte le furie, il corpo di Filippo si trova ancora lì per terra, senza che sia intervenuto nessuno. Il sindaco di Caccamo dice che non è compito suo, i compagni e i suoi parenti non vogliono toccarlo se prima non arrivano i carabinieri e intanto il suo corpo lì giace, tra le mosche, le formiche e la terra trasportata dal vento di scirocco. Senza nessuna pietà, come un animale!
Nessuno ha fame. Mangeremo stasera» [52].

Una pronuncia del corpo stabilmente atta a conservarsi nella specularità scorrevole di un’altra spudorata sequenza, piena di spregio e di insensatezza, che è quella, iconica per eccellenza, della morte di Turiddu, verso cui il romanzo inesorabilmente tende:
«Lo spogliano. Tutto gli tolgono. Resta completamente nudo. I miei fratelli e mio cognato mi dicono di non guardare, ma io voglio vedere. Lo girano. No! Non può essere lui! Dov’è la sua bella facciuzza? Dov’è la sua testuzza? Niente è rimasto! Lo hanno cancellato, vigliacchi! La faccia e la testa gli hanno distrutto!» [53].

A questo punto, la fenomenologia naturalistica, la spietata liturgia del lavoro, la pressione delle continue minacce sono il repertorio duttile che innesca il passaggio verso il più ampio riscontro diegetico riservato al mese cruciale del maggio del 1955: con il 16, il giorno della morte di Carnevale, e un mese (sondato quasi ininterrottamente dal «Venerdì 6 maggio 1955» al «Sabato 28 maggio 1955») a fare da spartito e segnacolo privilegiato di un testo da scomporre e ricomporre all’altezza di questa data. Come se il gioco degli eventi puntasse a una convergenza cronologica giunta all’apice, e che comporta, sul piano della storia, per i primi trentuno anni di vita del giovane sindacalista, circa cento pagine (che accompagnano la prerogativa di un romanzo di formazione, il complesso autonomo di una difficile crescita, saggiata pure sul motivo dell’emigrazione di Carnevale in Toscana, a Montevarchi, nel ’53: «Posa a terra la valigia, saluta i nonni e lo zio, poi mi abbraccia») [54]; quando invece, nel maggiore sincretismo tra piano del racconto e piano della storia, ben cinquanta pagine vengono specificamente assegnate al mese del suo sacrificio. Sacrificio peraltro reso più consapevole dal già ricordato soggiorno a Montevarchi, che ha significato, nell’acuirsi del distacco dalla propria terra sentita in analogia con la madre («Qui si sta bene, ma mi manca la nostra terra e il nostro sole”; «Durante il pranzo non ho fatto che pensare a voi, lì da sola e lontana»)[55], l’instaurarsi di una valenza nuova, che è quella della lotta partigiana. Snodo privilegiato per intendere meglio, nel maggiore arco di consonanza con Pertini, l’impegno politico di Carnevale:
«Qui sto conoscendo molte persone. Ci sono alcuni compagni che hanno combattuto nelle formazioni partigiane per la liberazione dell’Italia. Ho imparato pure le canzoni che cantavano e le ho scritte nei miei quaderni» [56].

Ora, dopo che anni interi, il ’52 e il ’53, sono colmati dal trattenimento di un fatto doloroso, qual è il filo rosso della morte di Intili, e consegnati a poche pagine, sul tratteggio veloce dell’esperienza in Toscana, è il 1954, selezionato sul definitivo ritorno di Salvatore a Sciara, a fare da pendant al ’51 e a tragica introduzione al ’55. Tutto si verifica con la consueta dovizia di informazioni connesse all’occupazione pacifica dei feudi (affidati al controllo e alla suggestione del riscontro toponomastico) e alla specificità di un riporto dei fatti in cui speranza e delusione, senso di denuncia del potere mafioso e sconforto, per uno Stato che nei suoi rappresentanti opera a detrimento della legge, convivono drammaticamente: «Si siede, mi avvicino e gli chiedo di raccontarmi. “Tantissimi eravamo! Uomini, donne, bambini […] Poi siamo partiti. Ogni angolo del feudo della principessa abbiamo occupato”»; e su un registro oppositivo: «Dovevano parlare della mancata applicazione della riforma agraria e dello scorporo delle terre […] Il questore di Palermo, così, senza motivo, ha vietato il comizio e Turidduzzu è andato su tutte le furie»[57]. Si tratta al tempo stesso, soprattutto per il 1954 e il 1955, di immettere un processo semiotico che, in linea con l’intero lavoro, trasversalmente anticipi i tracciati di una ricerca che ha nella morte il punto estremo di una lotta per lo scorporo dei feudi, drammaticamente segnata da «furti, minacce, danneggiamenti, tanto che in molti si rifiutano di presentare la domanda di assegnazione dei lotti» [58].

Il romanzo, in tal senso, accentua il valore di un’indagine che ruota su due punti focali ben precisi, rappresentati e dall’intensificarsi della “paura” per il piccolo paese di Sciara, dopo la partenza dell’attivista contadino e la morte di Padre Nuccio («In paese dicono che ad Andrea Esposito, il figlio di Salvatore, solo perché ha tagliato della legna secca da alcuni alberi della principessa, lo hanno portato al Baglio e minacciato»)[59], e dall’inedita gravità del pericolo che Salvatore corre al suo rientro da Montevarchi, con il lavoro che ha trovato alla “cava” di pietra della ditta Lambertini di Bologna, di proprietà, anch’essa, della principessa Notarbartolo («Tutti sanno che la cava è in mano agli uomini della principessa e ai mafiosi di Caccamo che gestiscono gli appalti della ferrovia, per questo hanno paura»)[60].

Francesca Serio con Ignazio Buttitta

Ogni cosa ha una sua corrispondente mansione di sviluppo, che, per i mesi del 1955 che precedono la morte del giovane Salvatore – il quale è riuscito a organizzare a Sciara la Lega dei braccianti edili e uno sciopero contro lo sfruttamento delle undici ore di lavoro alla cava –, vive più che altrove di un complesso di informazioni correttamente attinto alla sue fonti. Relativo al momento più difficile della vita di Carnevale, investito dal senso di una “solitudine” che si costituisce all’altezza degli uomini del suo stesso partito (qui in un congresso di Palermo ripresi in un’ottica della distanza dai «problemi veri»[61], pronti anche a irridere chi «contro forze potenti vecchie e nuove» si sente di vivere «fisicamente su un campo di battaglia»[62]); accanto, al tempo stesso, al formularsi di un palcoscenico che si arricchisce in maniera prepotente dei personaggi più oscuri della vicenda, delle frasi di minaccia che diverranno una sorta di nucleo prismatico attorno a cui si muoverà la straordinaria ispirazione accusatoria della madre («Proprio in quel momento, diretti al baglio, passano Nino Mangiafridda, Luigi Tardibuono, Giorgio Panzeca e Giovanni Di Bella, i quattro campieri della Principessa»; «“Mentre lavoravamo è venuto il maresciallo di Termini. Tra tutti chiamò me e mi disse ‘Carnevale, vieni qua, bada che sei il veleno dei lavoratori’ […] Assieme a lui, indovina chi c’era? Mangiafridda Antonio, che controllava i camion che partivano carichi di pietre. […] e allora si è voltato verso di me e mi ha detto, tistiannu, ‘Poco ne hai di questa malandrineria!’”»)[63], l’autore è come se si tirasse da parte, operando, però, su una committenza di gestione dei dati che è la vera proprietà risolutiva del racconto. Vale a dire che le testimonianze di Francesca date a Carli Ballola e Narzini, e che sono la cassa di risonanza di Il grano rosso, e la ricchezza documentaria del libro di Giuseppe Oddo, Tra il feudo e la cava, o le lettere inviate da Salvatore Carnevale ai vari sindacati, al partito, ai giornali, costituiscono la scommessa riuscita di un’articolata esecuzione di brani stralciati per essere concepiti in un nuovo allestimento; che è poi la ricostruzione della vicenda nella parola di una madre che è divenuta emozione, cronaca, storia, centro, il più qualificato, per raccontare e tenere in unione l’intensità delle diverse spettrografie su cui si è dispiegato il sacrificio del figlio [64].

Lo scrittore sa che la verità, avvitata a piccoli gesti, è lì, in quegli avvii, e che l’eroicità poi, per il sindacalista Carnevale, dichiarata a tutto tondo da tanti uomini di cultura e di partito, è più vera, strenua, proprio quando lo sforzo di farsi intendere lo lasciava agli inizi da “solo”, nel dialogo con la madre. Una Francesca Serio enunciata su uno stampo di appartenenza che prevede pure l’ascolto a distanza, quasi a carpire di nascosto le parole difficili che il figlio, per un moto spontaneo di difesa, voleva non le giungessero. Sappiamo, nei sottili modi di intendere un rapporto, che la ricezione del personaggio subisce molte variazioni, è affrontata da diverse angolature (la sua condizione di donna sola, senza marito, il lavoro nei campi, la coscienza politica e poi processuale), ma, di certo, la modalità di fondo è una, ed è quella cifra inderogabile di salvaguardia di una fonte orale canonizzata sulle parole del figlio, che custodiscono la verità dei fatti. Blandi ha dovuto lavorare molto per rendere permeabile la funzione del documento e l’immediatezza dei sentimenti; per decifrare, attraverso la topologia a segmenti delle testimonianze, le deliberazioni preziose sottese a un Buttitta in stato di grazia, quasi perenne: «Tu mi parravi comu un confissuri /iu ti parrava comu pinitenti».

Vicino al riporto di lettere di protesta, stralci di giornali, che connotano la sollecitazione umana, sociale di una continua rivendicazione di diritti, asserzione concreta di una figuratività del documento contraria a evocazioni arbitrarie («A Sua Eccellenza il prefetto di Palermo, al Presidente della Regione Siciliana, al Partito Socialista di Palermo. I contadini di Sciara…”; «Dice che hanno fatto un articolo su l’Unità della Sicilia, sul mancato comizio e sulla petizione. Me lo legge./ “A Sciara è stato consumato un grave arbitrio poliziesco…”»)[65], s’infiltra il dialogo più intimo con la madre, la quale comincia ad acquisire consapevolezza ascoltando i discorsi del figlio con gli amici: «Li sento parlare di una legge approvata l’anno scorso, la legge Gullo la chiamano […] Vi ricordate l’anno scorso – dice Salvatore – quello che è successo a Villalba? […] Quattordici feriti ci sono stati tra i contadini, tra cui lo stesso Li Causi, a una gamba»[66]. È nella madre, infatti, che si riordina il carico di una sofferta e dolorosa militanza, è nella prevalenza accusatoria delle sue parole, inclini a compiere l’ardente messaggio antimafioso del figlio, che il romanzo trova movimento, ripresa di motivi, il suo più interno punto di animazione:
«Quando tornò a casa lo vidi teso, stanco. Non parlava. Poi, seduto al mio fianco, mi raccontò dell’incontro. L’avvocato Marsala non aveva voluto riceverlo […]»
«Dopo le mie insistenze si decide a parlare. Dice che mentre si trovava in piazza è stato avvicinato da Luigi Tardibuono, il campiere della principessa e da Salvatore Riggio, il segretario comunale […]»
«E così mi conta il fatto:
Mentre tornavo dal lavoro, ho visto un uomo che passeggiava. Quando è arrivato vicino a me, mi fece, ‘Pss, pss’ e io gli detti nessuna risposta. ‘Oh Totò – mi dice quell’uomo – ti sei fatto superbo? E mi dà una pacca sulla spalla […]
[…]
E chi era questo?
La sera della domenica, vossia lo saprà. Appena faccio il comizio, senz’altro che lo saprà chi è! Tutti lo devono sapere» [67].

Un dispositivo di racconto che diventa un impegno a caratterizzare i posizionamenti della vicenda, gli accrescimenti politici e giudiziari, dall’interno della vera focalizzazione garantita da Francesca; e dichiarata a tutto tondo, in maniera radicale, nel corretto corredo delle notizie, che riguarda, ad esempio, l’Esposto che l’avvocato Nino Sorgi presenterà al procuratore di Palermo. La direzione è chiara, perché ogni strategia delle variabili e futura disquisizione processuale, ha questo sublime contenente d’origine, il più vero e resistente filo di unione:
«Io parlo e lui [Sorgi] scrive. Fogli ne riempie tanti, perché tante sono le cose che ha fatto Turidduzzu. Ripercorro tutta la sua vita che è anche la mia»[68].

Francesca Serio con Carlo Levi

Una strategia di racconto che si esprime nell’utilizzo di brani virgolettati accompagnati dall’indice progressivo delle Note, di cui a fine romanzo vengono dati gli estremi bibliografici. Note a cui segue un’Appendice fotografica, che, a guardar bene, è proprio essa stessa, nell’iconicità delle immagini, tratte dall’Archivio Centrale della Regione Siciliana, a fungere da sigillo definitivo di una storia d’amore tanto viscerale e assoluta da travalicare gli stretti confini familiari. E sporgersi, con l’intransigente vicinanza a figure quali Pertini, Nenni, Carlo Levi, Ignazio Buttitta, a toccare il piano della storia, della promozione a una posterità che ha in Salvatore Carnevale – nell’indole di questo novello Matteotti contadino – un personaggio più che esemplare. D’altronde, in un romanzo che fa transitare la grande storia sui circuiti della vita domestica, e che traduce la coesione dei dati lungo una sottile linea simbolica trattenuta sui contrappunti della ‘calata della rosa’ e dello ‘scomparire’ tutto questo ha una sua cogente qualità rappresentativa:
«Qui comandano i padroni, i loro campieri, il podestà e le camicie nere. Guai a contrariarli. Papà dice che a Roma, a quelli che si sono messi contro Mussolini, o li hanno ammazzati, come a Giacomo Matteotti, Piero Gobetti e Giovanni Amandola, o li hanno fatto sparire.
“Mamma, mamma, ‘ccà sugnu” la voce di mio figlio arriva veloce mentre sto sfornando l’ultima forma di pane» [69].

Da Sciara, un oscuro paese della Sicilia occidentale, la chiamata all’appello del sacrificio è presto detta («‘ccà sugnu»), e il bambino di otto anni si proietta (e rientra) nel novero dei più importanti, futuri martiri della libertà italiana. Il romanzo ha questa capacità di far vivere temporaneamente il vissuto di ogni giorno scandendolo su un codice di assimilazione più vasta, che risponde alle esigenze di accordare lo spessore storiografico – connesso a quello schermo logico e appassionato rappresentato da una donna che non omette nulla e finirà per muoversi dalla Procura di Palermo (luogo ufficiale delle sue prime accuse) fino alle aule di tribunale di Santa Maria Capua Vetere e Napoli – con la verticalità di una essenziale sfida simbolica; la quale, sull’ascendenza del motivo del sangue, raccolto attorno alla morte di Filippo Intili, traccerà un altrettanto persuasivo impianto, giocato sulla ricorsività onirica dell’“immagine maligna” (che non abbandonerà Francesca fino alla morte):
«Non parlava mai, non mi guardava e io lo vedevo da lontano. Lo chiamavo ma non mi rispondeva. Poi l’ho visto disteso lì a terra, senza volto, e ho capito che non è stato un sogno, ma un’immagine maligna»[70].

Dopo il grido della madre («Figlio, e come ti ammazzarono? E come ti misero bello sistemato?») [71], e con l’intemerato vigore di una denuncia che richiama in simultaneità sia il modello generativo di Buttitta e Carlo Levi [72], sia le successive inchieste mandate avanti da esperti giornalisti e storici («“perché il paese di Sciara è piccolo e si sanno l’avversari di mio figlio chi erano”»; «Penso a quel vigliacco di Nino Mangiafridda e a suo compare Luigi Tardibuono») [73], il testo si avvia verso quel giovedì 21 dicembre 1961 che vede, nella corte di S. Maria Capua Vetere, gli imputati colpevoli del delitto e condannati alla pena dell’ergastolo. Quanto dire che tutte le linee di trazione del racconto fino adesso esperite tendono a racchiudersi meglio in quell’ossatura emozionale di fondo rappresentata dalla ricerca di “giustizia” della madre; la quale ha ormai in sé, in maniera non certo accidentale, i segnali di un dibattito che, nel contatto profondo col figlio, qualifica un percorso del dolore aperto ad altri esiti, più intensi acquisti. Un modo di percepire che slaccia la vicenda da dimensioni individualistiche, suggerimenti tragici focalizzati solo nell’attendibilità di un dolore personale, raccordandosi infatti a quell’autentica crescita di carattere politico percepibile in tutto il percorso autobiografico di Francesca Serio, aperta a un complesso di corrispondenze che vedono nel figlio il convergere di una ramificazione del fenomeno mafioso contro cui non bisogna mai rinunciare a combattere:
«Ora posso morire tranquilla, perché giustizia è stata fatta, non solo per il mio Turiddu, ma per tutti i caduti sotto i colpi della mafia» [74].

Ma è anche qui, su questo presunto compimento giudiziario e etico – un enunciato che ridistribuisce infine le aspettative sorte dal contestualizzare le fasi del dibattimento, con l’autore pronto a riportare alcuni brani delle arringhe dell’avv. Taormina, di De Marsico – che il romanzo celebra i suoi nessi più inquietanti, quali la disillusione, lo sconforto per una giustizia che, a breve, rivelerà il suo volto proditorio, con l’assoluzione dei condannati, a Napoli, il 14 marzo 1963, per insufficienza di prove. La madre, sull’intrinseca incidenza dell’“immagine maligna”, che s’accompagna in maniera sinistra a qualsiasi apertura alla speranza («Tenta in tutti i modi di cancellare le immagini belle di mio figlio»)[75], dà voce anche a questa percezione, alla progressiva perdita di fiducia nella giustizia umana: “Come se mi avessero sbattuto una porta in faccia»[76].

Tra sentenze di primo grado, appelli, ricorsi in Cassazione, e dall’interno di quel motivo del “leggere”, della “scuola”, che costituisce un incondizionato modello di identificazione di Turiddu, ora riflesso nella specularità di un incontro con gli studenti del liceo di Termini («Non c’è posto per tutti e alcuni si siedono a terra»)[77], è così a questo punto che viene a determinarsi il grado ultimo di una consapevolezza incline a prospettare il figlio lontano, fuori da se stessa, creatura di un altro regno. E mentre il racconto, in modo operoso, in una pacata solerzia, senza enfasi, ci consegna il suo messaggio più alto, e capiamo che è il “dolore” a generare la verità, a sovvertire i sistemi, e che è l’amore che continua il ricordo e fa la storia, Salvatore Carnevale, al di là di ogni dibattito (di qualsiasi presupposizione storiografica giustamente intenta a prospettarlo quale «splendido, ineguagliabile eroe siciliano»[78]; ma Francesca Serio sviluppa pure tali ipotesi, non è aliena da tale idealistica configurazione), nella pronuncia sofferta delle parole della madre, finisce per situarsi proprio nell’ordine di tale sublime intendimento:
«E io, nonostante il dolore che ancora oggi sento vivo, nella mia carne, sono contenta quando parlano di mio figlio come di un eroe, perché ha difeso gli umili e i deboli, rifiutando di accordarsi con i potenti»[79].

In concomitanza, peraltro, con l’esemplarità di analisi di Francesco Renda, non a caso totalmente assimilato dentro una struttura narrativa che, con la tecnica del montaggio, del riporto oggettivo di brani fatti interagire sull’asse della contiguità con altri luoghi saggistici, fedelmente ne richiama il pensiero, la luminosità incoativa di un messaggio che vede un comune bracciante, «personificazione vivente» del suo ceto, entrare «nel pantheon degli uomini immortali» [80].

Il cerchio tende a chiudersi e, sui lontani fondali del testo di Levi, Le parole sono pietre, del suo realismo storiografico, etno-antropologico, che, con viva essenza di poesia, sa riattivare la nuova rivelazione cui è pervenuto il linguaggio della madre (“Ma nella sua bocca, davanti alla morte, questo linguaggio di partito, diventa un linguaggio eroico, come il primo modo di affermare la propria esistenza, l’arido canto di una furia che esiste per il primo giorno in un mondo nuovo”)[81], Blandi riesce anche analogamente a riformulare il suo impegno narrativo. E, dietro Levi – a reinvestire l’esemplarità di quell’incontro da cui siamo partiti –, vicino al regista Vittorio De Seta, ritorna quel sorprendente “maestro della letteratura” che fu Vincenzo Consolo: «Consolo e De Seta, uno accanto a l’altro, testimoniano il loro essere intellettuali semplici, schivi, lontani da schemi che in qualche misura possano contenerli» [82]. Quasi in risposta all’imperativo etico che passa nella lontana richiesta di Francesca a Levi:
«La madre mi chiese, salutandomi, sicura e imperiosa, che io scrivessi “il romanzo” della morte di suo figlio. Mi abbracciò, e la lasciai sola sulla sua sedia, con la sua voce che non si ferma, arida, uguale, nera» [83];

e in sintonia con quanto Consolo scrive nella Prefazione alle Parole sono pietre (nella preziosità di risultanze critiche che mantengono la suggestione del testo d’origine):
«Ma la disperazione dei contadini di Bronte, come la disperazione di tutta quella Sicilia che ha sofferto per i morti e le ingiustizie, trova riscatto e senso nella forza, nella lucida consapevolezza, nella ferma determinazione di entrare nella storia, di restare nella storia, di una donna: Francesca Serio, la madre del sindacalista Salvatore Carnevale, ucciso dalla mafia […] l’urlo oscuro e il pianto si articolano in parole – quelle parole che diventano pietre […] e il suo linguaggio, rivendicativo, accusatorio, giuridico, partitico, tecnico, diventa un linguaggio storico, un “linguaggio eroico”»[84].

Blandi si è affrettato a raccogliere il testimone, convergendo su indicazioni che attestano la validità di un suo sicuro procedere. Attenta alla scoperta del quotidiano in tutti i suoi aspetti – la sua più specifica nozione è il lavoro, e via via, eccezionalmente, la consapevolezza ideologica, di partito –, Francesca Serio, in questo romanzo, è così assunta a figura cardine di una contrapposizione radicale della donna siciliana rispetto a inveterati schemi, una creatura che, per amore del figlio, è capace di allontanarsi da ogni servitù, uniformità di pensiero, sovvertendo la spietata corrispondenza di chiusura della mafia e del feudo.
Dialoghi Mediterranei, n. 46, novembre 2020
Note

[1] Cfr. F. Blandi, L’emigrato e il pregiudizio, in Appuntamento a La Goulette. Le assenze senza ritorno dei 150.000 emigrati italiani in Tunisia (con contributi di Antonio Michelin Salomon, Alessandro Versace), Navarra Editore, Marsala-Palermo 2012: 120-125.
[2] F. Blandi, Vittorio De Seta. Il poeta della verità, Navarra Editore, Marsala 2016. La definizione di Consolo è tratta da I Cantieri del documentario, Cantieri Culturali alla Zisa, Palermo, 14 dicembre 2008 (presentazione del dvd Il mondo perduto, Feltrinelli, Milano, 2008).
[3] F. Blandi, Francesca Serio. La madre, Navarra Editore, Palermo, 2018.
[4] F. Blandi, Nota dell’Autore, in Francesca Serio. La madre, cit.: 5
[5] Cfr. G. Oddo, Tra il feudo e la cava: Salvatore Carnevale e la barbarie mafiosa, Centro Studi Pio La Torre, Palermo, 2005; U. Ursetta, Salvatore Carnevale. La mafia uccise un angelo senza ali, supplemento a “l’Unità” del 9 aprile 2005, Iniziativa Editoriale Spa, Roma, 2005.
[6] Cfr.F. Blandi, Vittorio De Seta. Il poeta della verità, cit.: 40-41.
[7] Francesca Serio. La madre, cit.: 12.
[8] «Si lavora, si lavora tanto, ma quello che si porta a casa è sempre poco. Qui, per avere meno della metà del grano dobbiamo pure raccogliere le olive, che però si prendono loro, i campieri della principessa Notarbartolo. Sono troppo prepotenti: minacciano e se non si fa come dicono loro, sono guai» (Ivi: 45).
[9] Ivi: 10-11.
[10] Ivi: 25; 246.
[11] Ivi: 249.
[12] Ivi: 56-57.
[13] Per una sintesi efficace, oltremodo chiarificatrice, della scrittura autobiografica popolare, cfr. P. Clementi, Altre letterature, letterature altre, in “Dialoghi Mediterranei”, n. 42, marzo-aprile 2020: 84-88.
[14] Ivi: 155.
[15] L’Esposto è articolato tra le pagine 147-154; ed è tratto – con un debito rimando alle Note poste alla fine del romanzo –, da Esposto di Francesca Serio al Procuratore Generale della Repubblica di Palermo, Fondo Solidarietà Democratica (Fondo Li Causi), Centro Studi Gramsci, Palermo, Busta B, Fascicolo 86.
[16] Ivi: 35.
[17] Ivi: 41.
[18] Ivi: 35, 39.
[19] Ivi: 55.
[20] Ivi: 81.
[21] Ivi: 92-93.
[22] Ivi: 52.
[23] Vd. ivi: 132, 71, 73, 125. Sulla bandiera: «Da una sacca tira fuori una stoffa piegata per bene, la svolge con cura: è la bandiera italiana, il tricolore» (ed è naturale una cifra di assimilazione che guardi a Buttitta, all’unicità sovrastante del suo «vogghiu muriri cu’ ‘sti sintimenti / Figghiu, ti l’arrubbau la bannera: / matri ti sugnu e cumpagna sincera!»).
[24] «Qualcuno avrebbe sentito che lo minacciavano, stringendolo contro il muro, e quando se ne sono andati, è rimasto bianco come un cadavere. Povero uomo, se queste voci sono vere, sono loro che gli hanno fatto scoppiare il cuore» (Ivi: 109).
[25] Ivi: 36.
[26] Ivi: 115, 120.
[27] Ivi: 37-38
[28] Ivi: 105-06.
[29] «Infilo la mano sotto la camicia e afferro una serpe nera che si era infilata nella manica. La butto via lontano. Salvatore ha la faccia bianca come la cera e io peggio di lui. Piango, mentre lo stringo al petto. “Figghiu miu, figghiu miu, cu ti difenni di li mali cosi!”» (Ivi: 34)
[30] Ivi: 122.
[31] Ivi: 122-23.
[32] Certo in Blandi il “profumo del pane”, tenuto insieme con il “profumo” dell’onestà di Turiddu, risuona anche di altre contingenze di tipo sociale il cui sostrato è nel Lamentu di Buttitta: «Curriti tutti a chianciri cu mia! / Puvireddi, nisciti di li tani, /morsi ammazzatu pi lu vostru pani!». Ma, a questo punto, ci tornano più che utili, nel loro rigore, le parole di Antonino Cusumano, che, per il pane e il vino, elementi fondamentali del mondo popolare – quel vino che nella vicenda di Carnevale si legge nell’estremità del sacrificio, del “sangue” –, così annota: «Per l’esemplarità della loro genesi nel processo vegetativo che ciclicamente si esaurisce e si rinnova, il pane e il vino sembrano metaforicamente interpretare e riepilogare l’eterno tema della vita e della morte, incarnando nella permanente precarietà del regime esistenziale delle società contadine il valore vitalistico che è in sé nella pianta che fruttifica, l’energia creativa e riproduttiva che vi è connaturata, immanente cioè alla natura. Ma perché diventino pane e vino è necessario che conoscano gli snodi tormentati della “Passione”, che siano cioè spogliati, smembrati, mondati, vagliati: che il grano sia separato dal loglio, i chicchi dalla paglia, la farina dalla crusca così come gli acini dell’uva staccati dai tralci siano divisi dai graspi, il succo distillato dal mosto, dopo essere stato fermentato, filtrato e decantato» (vd. Pane al pane e vino al vino, in “Archivio antropologico mediterraneo”, anno XII/XIII, 2009-2010, n. 12: 34), E, alla luce di tutto ciò, rimangono inalterati i dati di tipo sociale, anzi subiscono quel giusto incremento che torna a collocarsi all’altezza di Buttitta: «di l’alivi nn’aviti la grammaghia / e di la spica la coffa e la pagghia».
[33] Ivi: 122.
[34] Ivi: 68.
[35] Ivi: 62, 91, 92, 94: «“Io ti allevai senza padre, perché domani devi patire qualche destino per nu pocu di sciarioti?”»; «“Vossia mi staci cueta. Turnaiu e nun ci partu chiù”»; «Non mi pare vero. Turidduzzu è qui con me, è tornato per restare e non andrà più via»; «Si avvicina la sera e ancora non so niente. Seduta davanti alla porta lavoro a maglia. Prima che arrivi l’inverno voglio finire un maglione di lana grossa per Salvatore».
[36] Ivi: 137.
[37] Ivi: 132
[38] Ivi: 136
[39] Ivi: 129.
[40] Ivi: 66.
[41] Ivi: 76, 78.
[42] Edizioni Avanti!, Milano-Roma, 1956.
[43] Ivi: 61.
[44] Ivi: 59.
[45] Ivi: 56.
[46] Ivi: 56-57.
[47] Ivi: 60, 62, 81.
[48] Ivi: 82.
[49] Ivi: 83, 84.
[50] Ivi: 84.
[51] Ivi: 62, 68.
[52] Ivi: 84.
[53] Ivi: 128.
[54] Ivi: 86.
[55] Ivi: 87, 89.
[56] Ivi: 89.
[57] Ivi: 94, 96.
[58] Ivi: 93.
[59] Ivi: 90.
[60] Ivi: 112.
[61] Ivi: 103.
[62] Ivi: 104.
[63] Ivi: 120, 117.
[64] Per i tanti spunti utili, vd. M. Geraci, Francesca Serio: madre contro ogni mafia: «Alla fine dei conti, proprio inseguendo l’“effetto di estraniamento” già caro ai trovatori e ai cantimpanca (bänkelsänger) della Germania medievale cui s’ispirò Bertolt Brecht; ricercando il “sentire da una certa distanza” di Giovanni Verga, Leonardo Sciascia, Elio Vittorini e del realismo letterario meridionale da Levi a Pasolini e Consolo; provando a “fare il poeta in piazza” come Buttitta, Busacca, Trincale e i grandi cantastorie di Sicilia, Franco Blandi riesce magistralmente a sottrarre se stesso alla difficile e, per forza di cose, narcisistica posizione di autore-romanziere, facendosi sostituire del tutto da Francesca che, narrando a se stessa e di se stessa, tra fonti storiche e romanzo, assurge a Madre nuova, sofferta e sapiente, che infonde nuova linfa a chi oggi, come Cristo e Salvatore, si adopera a stroncare al suo insorgere le infime novità d’ogni mafia» (in “Il cantastorie on line, Foglio volante”, settembre 2019, www.rivistailcantastorie.it/francesca-serio/.).
[65] Francesca Serio. La madre, cit.: 96, 97. E ancora: «Prende carta e penna e comincia a scrivere. “Alla redazione del giornale Avanti! Il giorno 14 c. m. il vicebrigadiere di Sciara…”»; «“Alla Fillea Cgil di Palermo. / Il giorno 29 del mese scorso sono stato ingaggiato dall’impresa Lambertini assieme con altri cinque operai. Oggi il capo cava mi ha mandato a casa per motivo che ieri […] Vi prego di intervenire immediatamente”» (Ivi: 98, 113).
[66] Ivi: 49.
[67] Ivi: 69, 100, 114-115 [in relazione all’ultimo brano, vd. la testimonianza di Francesca che emerge sia da Il grano rosso sia da Le parole sono pietre].
[68] Ivi: 143.
[69] Ivi: 37.
[70] Ivi: 133.
[71] Ivi: 25.
[72] Vd. C. Levi, Le parole sono pietre (Prefazione di Vincenzo Consolo), Einaudi, Torino, 2010 (il volume fu edito nel 1955).
[73] Francesca Serio. La madre, cit.,: 127, 130.
[74] Ivi: 196.
[75] Ivi: 246.
[76] Ivi: 212.
[77] Ivi: 243.
[78] Vd. l’intervento di Vittorio Lo Bianco, in A. Angelini (a cura di), In ricordo di Carnevale. Mafia e lotta di classe in Sicilia negli anni 50, Atti del Convegno nel 30° anniversario dell’assassinio di Salvatore Carnevale, Ediesse, Roma, 1985: 50.
[79] Francesca Serio. La madre, cit.: 245.
[80] Ivi: 239 (il brano di Renda è tratto da In ricordo di Carnevale. Mafia e lotta di classe in Sicilia negli anni 50, cit.: 42). Su questa scia, vd. anche le pertinenti osservazioni di A. Baglio, La memoria dei sindacalisti siciliani uccisi dalla mafia. I casi di Accursio Miraglia, Placido Rizzotto e Salvatore Carnevale (1947-1955), in Sulla memoria. Dialoghi tra mondo mediterraneo e America Latina (a cura di Antonio Baglio, Caterina Benelli, Pavella Coppola), Aracne Editrice, Roma, 2019: 181: «Tra le componenti della narrativa agiografica elaborata dai movimenti antimafia, quella coltivata dal movimento operaio e contadino ha alimentato nel tempo il culto della memoria dei sindacalisti siciliani vittime della violenza mafiosa tra gli anni Quaranta e Cinquanta, offrendo un contributo decisivo alla ‘costruzione del mito’ e al riconoscimento collettivo di questi eroi e delle loro storie esemplari».
[81] Le parole sono pietre, cit.: 145.
[82] Vittorio De Seta. Il poeta della verità, cit.: 9.
[83] Le parole sono pietre, cit.: 156.

[84] V. Consolo, Prefazione a Le parole sono pietre, cit.: XII.
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Giuseppe Fontanelli, professore associato di Letteratura italiana moderna e contemporanea presso il Dipartimento di Civiltà antiche e moderne dell’Università di Messina. I suoi interessi riguardano il filone dei movimenti letterari del Novecento, in particolare il Neorealismo e la Neoavanguardia, e quello della letteratura meridionalistica. Ha dedicato ampi volumi a Danilo Dolci, Alvaro, Fontanella, Bononi, Tozzi, Tecchi. Le più recenti direzioni di ricerca si sono concretizzate in un trittico di saggi volti a recuperare un caso letterario come Loris Jacopo Bononi (Nell’Archivio di Castiglione del Terziere. La poesia inedita di Loris Jacopo Bononi; Verso le sillogi ‘postere’. Tensioni elaborative della poesia inedita di Loris Jacopo Bononi; Tra gli inediti di Loris Jacopo Bononi. I Drammi intimi) che sono il prodotto di una sistematica investigazione fra i materiali inediti dello scrittore, scomparso nel 2012, che si conservano nell’archivio del Castello di Castiglione del Terziere (Lunigiana).









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Dalla Rivista "Il Cantastorie"
FRANCESCA SERIO: MADRE CONTRO OGNI MAFIA
Sul recente “romanzo-saggio” di Franco Blandi
relativo alla tragica morte del sindacalista siciliano Salvatore Carnevale, socialista

di Mauro Geraci

A chi s’avventura tra le righe del recente libro di Franco Blandi, fotografo, documentarista, scrittore siciliano d’altissimo impegno, straordinarie sorprese rivelerà ancora la vita di Francesca Serio, madre di Salvatore Carnevale, il giovane sindacalista socialista ucciso dalla mafia a Sciara, piccolo paese in provincia di Palermo, il 16 maggio 1955. Il primo di una lunghissima serie di omicidi tesi a eliminare dalla faccia della terra, non solo siciliana, eccellenti, coraggiosi sindacalisti quali Carmine Battaglia, Epifanio Li Puma, Placido Rizzotto fino a Pio La Torre. Sorprese ancor più apprezzabili visto che le tragiche storie di Francesca e Salvatore sono state, nei decenni scorsi, oggetto d’una notevolissima ripresa letteraria e cinematografica: dal capitolo centrale di Le parole sono pietre (1955) in cui è Carlo Levi a raccogliere le denunce di Francesca all’indomani dell’attentato, al celebre Lamentu pi la morti di Turiddu Carnivali composto dal poeta Ignazio Buttitta per la voce di Cicciu Busacca, cantastorie come Franco Trincale che, sullo stesso assassinio, compose Ballata di lupara, fino al primo film dei fratelli Taviani centrato sulle lotte del giovane sindacalista, Un uomo da bruciare (1962). E sebbene rigogliose si siano succedute sino ai nostri giorni le indagini giornalistiche e storico-politiche sulla vita emblematica e sull’eliminazione di Salvatore Carnevale – penso al puntuale lavoro di Umberto Ursetta su Salvatore Carnevale. La mafia uccise un angelo senza le ali (2005) – la recente opera di Blandi risulta oggi originalissima, sotto numerosi punti di vista.

Anzitutto per il tipo di progetto narrativo attraverso cui lo scrittore restituisce voce nuova alla madre di Salvatore, Francesca Serio, che, nonostante sia scomparsa a Sciara il 16 luglio del 1992, può tornare oggi a raccontare in prima persona la sua vita bracciantile, l’abbandono del marito, la solitudine con un figlio sulle spalle da sfamare, la miseria, l’emigrazione interna da Galati Mamertino nel Messinese fino a Sciara nei terreni dei Notarbartolo, e quindi le lotte per la terra e le occupazioni contro gli strapoteri della mafia del feudo, le battaglie crescenti del figlio, la sua uccisione e la ricerca di giustizia che animerà tutta la sua esistenza. A dare forza, originalità, commozione alle parole della madre non è, tuttavia, il solo dramma personale, familiare e sociale che, attraverso la scrittura di Blandi, lei può raccontare post mortem ai più giovani, sempre che siano disposti a levarsi per un attimo le cuffiette e ad alzare gli occhi dallo smartphone. Blandi, in altri termini, non restituisce alla madre di Salvatore solo la parola e la penna per mettere per iscritto il suo personale dramma. La straordinaria potenza delle parole della madre qui è data dal fatto che esse contemporaneamente rinviano, fanno proprie e riflettono al lettore, in forma partecipata e sintetica, tutte le acquisizioni archivistiche, giudiziarie, storiche, antropologiche, politiche che, in questi decenni, studiosi, giornalisti, magistrati e poeti hanno rilevato sull’insorgenza della mafia nella Sicilia aristocratica e rurale, specie dal secondo dopoguerra. La parola che Blandi restituisce a Francesca Serio è potentissima proprio perché non è solo la sua, quella della madre che piange il figlio trucidato, ma anche quella dell’osservatrice che, con altissima sensibilità, competenza, raccoglie e diffonde le voci di chi, in questi decenni, ha continuato a lottare con lei per svelare e denunciare il fenomeno mafioso. Leggere la rediviva Francesca Serio significa entrare in contatto con una narrazione potentissima, polifonica, sapiente nella sua immediatezza e semplicità; è come leggere, tutti in una volta, centinaia di libri che parlano della mafia e dei condizionamenti capillari, sottili, onnipervasivi, intimi e infidi che questa ha nociuto a intere generazioni di siciliani e non.

In questo senso l’opera di Blandi è originale perché travalica forme letterarie ormai consolidate sin dall’Ottocento: il “romanzo storico”, il “romanzo inchiesta”, il “romanzo epistolare”, le storia di vita in forma di “diario” o “autobiografia”. Quello di Blandi è un prodotto nuovo: un romanzo con le note a piè di pagina, un “romanzo saggio” potremmo definirlo che, attraverso i pensieri e le azioni della madre, apre una finestra sulle condizioni di vita, sulle paure, sulle miserie, sulle precarietà come sulle dignità e sulle combattività che - per riprendere concetti cari a Ernesto de Martino, a Friedrich G. Freedmann come a Luigi M. Lombardi Satriani – contraddistinguono il mondo contadino del Sud tra Otto e Novecento.

Così, con quello stesso italiano dialettale che usava nelle sue denunce e che Blandi riprende alla perfezione, Francesca descrive i più piccoli gesti della vita quotidiana, le monotonie domestiche, le pesantezze dei lavori agricoli, i sacrifici e i sogni rispetto a una realtà difficile a cambiare nei rapporti di classe, nelle ingiustizie, negli abusi, negli strapoteri. Giorno per giorno ci racconta come il giovane Carnevale cominciò a rendersi conto e a sensibilizzare i braccianti sulle inaudite condizioni di sfruttamento arbitrariamente imposte dai campieri, i soprastanti a servizio dei Notarbartolo che risiedevano lontano, negli alti palazzi della Palermo bene; come, sull’onda degli ideali socialisti, si battesse con crescente coraggio affinché le acquisizioni della riforma agraria venissero rispettate. Da qui, la Francesca di Blandi, segue passo passo la reazione dei mafiosi che vedevano a poco a poco il terreno scivolare sotto i loro piedi e, quindi, gli sguardi taglienti, gli avvertimenti allusivi che presto si trasformarono in minacce vere e proprie, in intimidazioni che non fecero presa sul giovane Turiddu per il quale, il 16 maggio 1955, si ricorse quindi alla pena di morte, inferta dai mafiosi locali che lo vollero abbattere a colpi di lupara in contrada Cozze Secche, mentre si recava al lavoro. Così Ignazio Buttitta, grande poeta-cantastorie di Bagheria che, assieme a Carlo Levi, subito accorse ad abbracciare la madre, ricorda la solennità del socialismo contadino portato avanti da Turiddu che ora si staglia sull’alba di un nuovo Calvario siciliano:

Sidici maju l’arba ‘n celu luci
e lu casteddu javutu di Sciara
guardava lu mari chi straluci
comu ‘n artari supra di na vara
e tra mari e casteddu una gran cruci
si vitti la matina all’aria chiara
Sutta la luci un mortu e cu l’aceddi
lu chiantu ruttu di li puvareddi.

Da quel giorno Francesca Serio dedicò tutta la sua vita alla ricerca della verità e della giustizia denunciando le minacce ricevute dal figlio e additando i mafiosi del paese quali autori del delitto. Il sindacato, i partiti di sinistra, resisi conto della solitudine in cui Carnevale combatteva le sue battaglie, non fecero mancare il loro sostegno a Francesca durante i processi e il giovane Sandro Pertini fu tra i primi a giungere a Sciara nel giorno del delitto, restando al fianco Francesca durante i lunghi anni del processo. Processo che nel ‘61 condannò all’ergastolo quattro imputati (l’amministratore del feudo Giorgio Panzeca, il magazziniere Antonio Magiafridda, il sorvegliante Luigi Tardibuono, il campiere Giovanni Di Bella) poi, come troppo spesso successe da quegli anni in poi, nel ‘63 assolti in appello e cassazione per insufficienza di prove. Della fase processuale, dando voce e penna al racconto di Francesca, Blandi ricostruisce le attese, le intese, gli sguardi, i timori, le pressioni, le tensioni sentimentali, le azioni e reazioni che svelano quel cemento grigio, omertoso e silenzioso che costituisce il connettore profondo dell’agire mafioso.

Alla fine dei conti, proprio inseguendo l’”effetto di estraniamento” già caro ai trovatori e ai cantimpanca (bänkelsänger) della Germania medievale cui s’ispiro Bertolt Brecht; ricercando il “sentire da una certa distanza” di Giovanni Verga, Leonardo Sciascia, Elio Vittorini e del realismo letterario meridionale da Levi a Pasolini e Consolo; provando a “fare il poeta in piazza” come Buttitta, Busacca, Trincale e i grandi cantastorie di Sicilia, Franco Blandi riesce magistralmente a sottrarre se stesso alla difficile e, per forza di cose, narcisistica posizione di autore-romanziere, facendosi sostituire del tutto da Francesca che, narrando a se stessa e di se stessa, tra fonti storiche e romanzo, assurge a Madre nuova, sofferta e sapiente, che infonde nuova linfa a chi oggi, come Cristo e Salvatore, si adopera a stroncare al suo insorgere le infime novità d’ogni mafia.







Una mamma coraggio nel libro di Franco Blandi: la lotta contro il malaffare di Francesca Serio

di Antonino Cangemi
Su BlogSicilia del 20 aprile 2019


Carlo Levi conclude il suo “Le parole sono pietre”, un toccante viaggio nella Sicilia contadina degli anni ’50, con l’immagine di Francesca Serio: «Così questa donna si è fatta, in un giorno: le lacrime non sono più lacrime ma parole, e le parole sono pietre».
Francesca Serio è un nome che pochi ricordano, eppure fu la la prima donna a ribellarsi alla mafia che gli uccise il figlio sindacalista, quel Salvatore (Turiddu) Carnevale che, nei versi di Buttitta affidati alla voce del cantastorie Busacca, «ancilu era e nun avia ali/ nun era santu e miraculi facia,/ ‘n celu acchianava senza cordi e scali/ e senza appidamenti nni scinnia».
Alla vita della mamma di Salvatore Carnevale, Franco Blandi dedica un romanzo a forma di diario, “Francesca Serio”, sottotitolo “La madre”, edito da Navarra.
Rispolverare la memoria di una donna coraggiosa –Francesca Serio, appunto – espressione di una Sicilia che, pur nella sofferenza, non si rassegna e rivendica caparbiamente l’affermazione della giustizia è un atto meritorio in sé. Ma a parte ciò, Franco Blandi, direttore artistico della rassegna “Nebrodi Cinema Doc”, sebbene alla sua prima prova narrativa (aveva già pubblicato un paio di saggi), ci offre un libro ricco di sfumature, capace di coinvolgere emotivamente i lettori ma anche di rappresentare senza voli pindarici, nella loro crudezza, le realtà sociali della Sicilia in cui visse Francesca Serio. Realtà sociali connotate da connivenze tra i ceti più abbienti e la mafia e, di contro, dalle sopraffazioni subite dalle classi subalterne.
Chi scrive di libri è solito ricorrere a classificazioni schematiche che tante volte si rivelano fini a se stesse: sicché si parla di “romanzo di formazione” per qualsiasi storia che in qualche misura racconta esperienze vissute dal protagonista in più stagioni della propria vita ancorché non determinanti per la sua crescita interiore, di “romanzo storico” per qualsiasi vicenda ambientata in un determinato periodo di tempo. In questo caso, la qualificazione di “romanzo storico” è davvero calzante: “Francesca Serio” testimonia e documenta come si viveva nella Sicilia degli anni ’40 e ’50 e l’immaginazione –tipica di un testo narrativo- non altera i fatti che sono raccontati per come riportati dalle fonti (cui peraltro si rinvia a chiusura del libro).
“Francesca Serio” è perciò una sorta di “romanzo-documentario”? Sì, se si vuol porre l’accento sulla scrupolosa aderenza ai fatti della storia; no, se ciò dà l’idea di un romanzo freddo, sorvegliato nei suoi risvolti emotivi. Quello di Blandi è un romanzo ravvivato dalla passione.
Il pathos riaffiora e penetra nel racconto della vita di Francesca Serio segnata dalla sfortuna e dal coraggio sin da quando, abbandonata dal marito, lascia il suo paese, Galati Mamertino, per trasferirsi, coi fratelli e col piccolo Salvatore da accudire e far crescere, a Sciara, dove per sbarcare il lunario lavora nei campi.
Dalle pagine del diario romanzato quanto basta di Francesca Serio emerge la sua figura di madre (non a caso, come detto, richiamata nel sottotitolo): Francesca è sempre accanto al figlio nelle sue lotte contadine e nelle rivendicazioni per la riduzione dell’orario di lavoro (la giornata di un operaio durava 11 ore), e anche dopo la morte quando, vincendo ogni paura, denuncia i mafiosi e riesce a fare imbastire un processo nei loro confronti.
Il romanzo di Blandi fa rivivere Francesca Serio e quegli anni, grazie anche a una scrittura resa efficace sia dalle contaminazioni che dalle intonazioni dialettali.

La recensione è stat pubblicata al link seguente:


















22 ottobre 2018 - Graziana Giròvaga

Sulla copertina del libro, pubblicato da Navarra editore il 7 giugno 2018, si trova una foto in bianco e nero di Francesca Serio, madre del sindacalista socialista Salvatore Carnevale ucciso dalla mafia, che cammina con Sandro Pertini, il settimo Presidente della Repubblica Italiana, all’uscita del tribunale.
Francesca Serio. La madre è un romanzo di forte impatto emotivo, dell’autore siciliano Franco Blandi.
Era il 16 maggio del 1955, Salvatore si stava recando a lavorare, ma fu ucciso e sfigurato da 6 colpi di lupara. Aveva solo 31 anni. Sua madre corse alla cava di pietra gestita dall’impresa Lambertini, dove si trovava il corpo, portando con sé lo scialle,
portami lo scialle, o matri, che mi devi coprire a me.
e questa volto fu costretta a coprirlo veramente. Lo aveva riconosciuto dai piedi. Rimase accanto a lui, attònita e immobile nel suo dolore.
E’ un romanzo storico in perfetto equilibrio tra le fonti storiche e la narrazione, la cui vicenda si collega ai grandi eventi politici e sociali del tempo, ma prima di tutto è il racconto di una Donna che è andata oltre i pregiudizi, una Madre coraggiosa, straziata dal dolore, una Persona che non sapeva né leggere né scrivere e ha lavorato nei campi una vita intera. Era una bracciante, che lavorava 14 ore al giorno per dare un futuro a suo figlio. Era una Donna che non si lamentava mai.
Il romanzo inizia nel 1923, Francesca ha 23 anni, è al settimo mese di gravidanza e lavora nei campi con i suoi fratelli, è stata abbandonata da suo marito e dice:
sono io che non lo voglio un marito così, un padre così.
Salvatore, per tutti Turiddu, crescerà e andrà a scuola a Sciara fino alla Terza elementare, e poi andrà a lavorare con sua madre. Ma si pagherà la scuola privata per sostenere gli esami di Licenza elementare, studiando tutte le sere dopo il lavoro. E’ un uomo pieno di ideali e passioni, leggeva l’Avanti, il quotidiano storico del PSI e parlava di politica alla madre. Le raccontava delle lotte al Nord dove i contadini vivevano una vita migliore; del Referendum per determinare della forma di governo da dare all’Italia; di Parri e De Gasperi; delle proteste contro lo strapotere contro lo sfruttamento; della strage alla Portella della Ginestra il Primo maggio del ’47; della riforma agraria bloccata dai democristiani e della lotta dei contadini sottomessi alla mafia. Turiddu chiamò tutti i contadini per manifestare pacificamente. Fu nominato segretario della Lega dei lavoratori edili di Sciara. Tre giorni prima di essere assassinato era riuscito ad ottenere le paghe arretrate dei suoi compagni e il rispetto della giornata lavorativa di otto ore.
La madre non si piegherà mai, anzi raccolse tutte le forze e accuserà i mafiosi e chi era legato a loro. Nel processo, la parte civile costituita dalla madre Francesca Serio, fu rappresentata dal futuro presidente della Repubblica, il socialista Sandro Pertini. Il 21 dicembre 1961 i quattro imputati vennero condannati all’ergastolo. In appello e in Cassazione il verdetto fu ribaltato e gli imputati furono assolti per insufficienza di prove.
Francesca Serio è morta all’età di 89 anni in solitudine. Pochi ricordano la protagonista di quella storia negata, che è la storia delle lotte popolari. Ma riecheggia ancora oggi in tutte le storie delle madri che cercano incessantemente la verità sulla morte del proprio figlio.
E’ un libro che racconta la vita della Prima Donna che ebbe il coraggio di rompere il silenzio e di denunciare la mafia. La prima che ha trasformato le lacrime in parole.
Graziana Giròvaga 22 ottobre 2018


Cardi selvatici per il dolore
Recensione "IL MANIFESTO" di Piero Bevilacqua
storico, accademico e scrittore.
- Piero Bevilacqua, 11.09.2018

«Francesca Serio, La madre» di Franco Blandi, per Navarra edizioni. Il romanzo in forma di diario che racconta la vita di una donna a cui la mafia ha ucciso il figlio, il sindacalista Salvatore Carnevale, nel 1955.

Chi si ricorda oggi di Francesca Serio? Eppure il suo nome è circolato, di tanto in tanto, per quasi quarant’anni, nelle cronache italiane. Era la mamma di Salvatore Carnevale, il sindacalista ucciso dalla mafia il 16 maggio del 1955. Un omicidio come tanti, che punteggiavano la Sicilia turbolenta del dopoguerra, ma che allora suscitò un’ondata di sdegno in tutto il paese.

SALVATORE era un sindacalista, iscritto al Partito socialista ed era in prima fila nella lotta per una più equa ripartizione dei patti colonici, l’applicazione dei decreti Gullo e, dopo il 1950, per la spartizione del latifondo e la distribuzione della terra ai contadini. Si trattava, con evidenza, di un delitto politico, un attacco criminoso al sindacato, a un grande partito nazionale, ai movimenti contadini. Un fatto di sangue, che, come allora accadeva, dopo una prima condanna all’ergastolo dei probabili assassini, rimase impunito per la sentenza finale di assoluzione da parte della Cassazione. Ora quella pagina di storia torna in forma di cronaca romanzata per merito di Franco Blandi, Francesca Serio, La madre (Navarra Editore, pp.255, euro 15). È un romanzo in forma di diario, in cui Francesca registra la sua vita quotidiana di giovane madre, di donna crudelmente ferita dall’uccisione del figlio, di militante civile che si batte per anni al fine di avere giustizia.

MA QUESTA STORIA NOTA (la ricorda Carlo Levi in Le parole sono pietre) ritorna ora nelle pagine di Blandi con una forza evocativa sorprendente. Le pagine del diario restituiscono il mondo  contadino della Sicilia del dopoguerra con uno scrupolo documentario e una semplicità di scrittura che ha affreschi «verghiani» di grande intensità. «È sera quando la porta si apre e ad uno ad uno entrano papà, mamma e i miei fratelli. Sfilano tutti davanti al focolare allungando le mani per riscaldarsi. Gli uomini si tolgono di dosso le giacche diventate pesanti per l’umidità e le appoggiano sulle sedie accanto al braciere. La nebbiolina umida che emana sale verso l’incannucciato del tetto. La nonna è già impegnata a preparare la cena: minestra di cavoli e pane. Con questo freddo è proprio quello che ci vuole. Il fumo della minestra sale dai piatti e si mescola con quello del focolare e del braciere. Mio figlio dorme, così posso sedermi a tavola anch’io con tutti gli altri. Papà, come ogni sera, toglie fuori dalla tasca un piccolo coltello e taglia il pane. Anche se nessuno lo chiede, lui lo taglia sempre e lo mette al centro della tavola. Nessuno di noi ha molta voglia di parlare. La stanchezza toglie il fiato».

NELLE PAGINE DI SERIO domina sovrana la fatica, il lavoro che assorbe tutta la giornata, in una campagna segnata dal paesaggio nudo del latifondo. Il mondo dei braccianti, dei contadini privi di terra, è quello della ricerca quotidiana della giornata di lavoro, dell’ingaggio per poter mettere le braccia a servizio di un campiere, che le sorveglierà dall’alba al tramonto. E le pause sono poche: il pasto in campagna, la cena, il riposo notturno. Ma il pranzo della famiglia ha nel racconto sempre un posto speciale, perché Blandi, con scrupolo documentario, ricostruisce la genialità dei contadini nel trasformare il grano, le olive, i cardi selvatici, i piselli in piatti desiderabili. L’altro merito del libro è senza dubbio la ricostruzione, in un flusso narrativo che non conosce indugi sociologici, del contesto sociale e politico delle campagne siciliane. Non si possono comprendere le conquiste della democrazia repubblicana, se si ignorano le lotte politiche condotte dai contadini e dai partiti popolari in quegli anni.

LA SICILIA è un paradigma delle specifiche difficoltà dell’Italia a diventare uno stato di diritto. Blandi illumina con il semplice racconto dei fatti questo paradigma. Attraverso le vicende del bracciante Carnevale emergono la struttura e i meccanismi di potere che regolano la vita delle campagne isolane. C’è la terra, la grande proprietà, ci sono i campieri a servizio dei proprietari, poi ci sono i carabinieri, il parroco e, al di sotto di tutti, la massa dei braccianti, sfruttati sino allo sfinimento. Come accade ancora oggi ai braccianti nordafricani nelle nostre terre. Segno che la ferocia padronale è sempre viva se manca l’antidoto del conflitto organizzato. Allorché sin dai decreti Gullo, lo stato postfascista comincia a mettere le mani sui rapporti semifeudali di quelle campagne, la difesa proprietaria dei vecchi assetti si fa violenta e sanguinaria.

PROPRIETARI E CAMPIERI si rifiutano di applicare le leggi dello stato e mettono in campo la forza che deve contenere le rivendicazioni popolari: la mafia. Meccanismo noto, certo. Meno noto è che a schierarsi contro i contadini e lo stato sono anche i carabinieri, protagonisti di continue intimidazioni contro i lavoratori, così come tanti parroci, la gran parte della chiesa siciliana, non pochi maggiorenti della Democrazia Cristiana, il partito di governo attraverso cui la criminalità organizzata penetrerà nel cuore dello stato italiano.

https://ilmanifesto.it/cardi-selvatici-per-il-dolore/

© 2018 IL NUOVO MANIFESTO SOCIETÀ COOP. EDITRICE

Piero Bevilacqua (Catanzaro, 1944) è uno storico, scrittore e saggista italiano.
Laureato in Lettere con Alberto Asor Rosa all'università La Sapienza di Roma, dove fu poi Professore ordinario di storia contemporanea; in precedenza ha anche insegnato negli atenei di Salerno e di Bari.
Dopo aver partecipato al gruppo redazionale della rivista Laboratorio politico (1981-1983), nel 1986 ha fondato l'Istituto meridionale di Storia e di Scienze sociali (Imes), che tuttora presiede, e la rivista Meridiana, di cui è direttore.
Tra le sue opere più note, spiccano Le Campagne nel Mezzogiorno tra fascismo e dopoguerra: il caso Calabria (Einaudi, Torino 1980), il fortunato saggio Breve storia dell'Italia meridionale dall'Ottocento ad oggi (Donzelli, Roma 1993), i volumi su Venezia e le acque: una metafora planetaria (Donzelli, Roma 1995) e su Demetra e Clio. Uomini e ambiente nella storia (Donzelli, Roma 2001), La mucca è savia. Ragioni storiche della crisi alimentare europea (Donzelli, Roma 2002) e La terra è finita. Breve storia dell'ambiente (Laterza, Roma-Bari 2006).
Fra le opere da lui curate, si segnalano: Le bonifiche in Italia dal Settecento ad oggi con Manlio Rossi Doria e uscito per Laterza nel 1984; i tre volumi sulla Storia dell'Agricoltura italiana in età contemporanea, editi fra il 1989 e il 1991 dalla casa editrice Marsilio; assieme ad A. Placanica il volume sulla Calabria del 1985 per la nota collana einaudiana della «Storia d'Italia»; unitamente ad A. De Clementi e ad E. Franzina, i volumi I e II della Storia dell'Emigrazione italiana, usciti, rispettivamente nel 2001 e 2002, per l'editore Donzelli.



“Francesca Serio, la madre”  
Vera Pegna
Recensione di Vera Pegna 
scrittrice, interprete, attivista politica. Essa stessa protagonista negli anni '60 di alcune delle vicende narrate nel libro "Francesca Serio. La Madre".

“Francesca Serio, la madre” è un libro avvincente: vale la pena leggerlo, possederlo e regalarlo. Anche se – ammetto – per me un motivo personale si è aggiunto al piacere della lettura. Si tratta del fatto che il Pci mi mandò a Caccamo – a tre chilometri da Sciara, il luogo dove si svolgono i fatti - pochi anni dopo l’assassinio di Salvatore Carnevale e mi trovai ad affrontare lo stesso capomafia, don Peppino Panzeca, il mandante degli assassinii narrati nel libro, nonché capo della commissione della mafia palermitana, altro che mafioso paesano e analfabeta. Più ci penso e più mi rammarico di non avere incontrato Francesca, tanto più che, mi ha detto Franco Blandi, sapeva di me, la “fimmina di Caccamo”.
Di assassinii il libro è pieno: Più di sessanta sono state le persone ammazzate nella zona di Caccamo e un’altra cinquantina i sindacalisti e gli attivisti di sinistra ammazzati in Sicilia per la loro attività in difesa dei lavoratori. Ѐ questo il contesto societale e politico in cui si svolge la vita di Francesca Serio e di suo figlio Salvatore Carnevale: una vita povera, fatta di essenziale. Francesca esce col buio e arriva in campagna col giorno, “adesso ritorno che è ancora giorno ma arriverò a casa che sarà buio”; lo stesso fa Turiddu che “non ha neanche un mulo o una bicicletta”. Con le foglie di borraggine che raccoglie lungo la trazzera, Francesca prepara la cena: frittelle di borraggine, formaggio, pane e vino. Ieri sera: un piatto di cicoria, formaggio, pane e vino. Ricorda la sua infanzia a Galati, quando “non c’era niente da mangiare” e il suo pensiero va a nonna Nina: le cose povere che avevamo da mangiare, con le sue mani, sapeva farle diventare preziose. L’ansia quotidiana della ricerca di cibo viene illustrata da immagini nitide e veritiere. 

Francesca Serio
Da allora sono trascorsi sessant’anni e, a mano a mano che procedevo nella lettura del libro, scorrevano davanti ai miei occhi le persone che - nel bene o nel male - hanno segnato quegli anni della mia vita; vi ho ritrovato le stesse struggenti delusioni patite da noi militanti di base rispetto al nostro partito (socialista quello di Carnevale, comunista quello mio e dei miei compagni) che puntano in modo irrefutabile alla continuità della logica che condusse alla débacle successiva dei partiti di sinistra: infatti, tranne rare eccezioni, i nostri dirigenti si dimostravano ben poco interessati alle lotte della loro base e assai più alle dinamiche dei vertici partitici. Lo dice lo stesso Salvatore al congresso socialista con parole inequivocabili che vengono ricordate al convegno organizzato dalla Camera del Lavoro di Palermo in occasione dell’anniversario della sua morte: “Ho la sensazione che io vivo fisicamente sul campo di battaglia e sento nella mia coscienza che in questa lotta contro la mafia, per il riscatto sociale dei lavoratori siamo soli, mancando una coscienza e una solidarietà nazionale”.Testimonianza tremenda che avrebbe dovuto mettere sull’attenti l’intera platea dei presenti ma che cadde nel nulla finché la mafia non decise di eliminarlo, lui Turiddu, già minacciato ripetutamente dagli sgherri di don Peppino. Era stato più volte avvertito: “Picca n’hai di sta malandrinarìa”; un altro, non meno esplicito, gli dice: “Talè, io ti voglio troppo bene, perché devi fare qualche mala morte? “ Anche i compagni di Turiddu vengono minacciati: a Polizzi, un campiere della principessa Notarbartolo ricorda la fine che aveva fatto qualche mese prima un contadino: era stato ammazzato legato a un mulo e trascinato per la campagna. 

Turiddu si fidava delle istituzioni e sosteneva che le minacce andavano denunciate ai carabinieri in quanto questi rappresentavano lo Stato anche se, da che parte stava lo Stato a Sciara, Turiddu ne era ben consapevole: i carabinieri - ospitati in una proprietà della principessa Notarbartolo - rifiutavano di verbalizzare le sue denunce, intimidivano i contadini che andavano a scioperare e il maresciallo di Termini andò fino a dirgli: “Sei il veleno dei lavoratori”.
Salvatore Carnevale

Tali propositi hanno richiamato alla mia mente la risposta che mi diede il maresciallo dei carabinieri di Caccamo quando gli chiesi di accompagnarmi sul feudo Ciaccio per dare manforte e legittimità ai mezzadri che chiedevano l’applicazione della legge sulla divisione dei prodotti: “Non ci vengo e dica a chi la manda che è un fetente”. Gli risposi che allora fetente era lui e me ne andai sbattendo la porta. Succedeva sette anni dopo l’assassinio di Turiddu. 

“Un comunista ha il dovere di studiare e lottare”, mi aveva insegnato il segretario della Camera del Lavoro di Palma di Montechiaro, Angelo Scopelliti, prima ancora che mi iscrivessi al partito comunista. Spesso mi sono chiesta: a Turiddu Carnevale chi glielo insegnò? Eppure, ci dice Francesca che ogni sera lui leggeva il giornale e studiava, cercando nel dizionario il significato delle parole che non capiva e diceva che bisogna coinvolgere le persone, parlare con i contadini e spiegare che la legge è dalla loro parte e che i loro diritti devono essere difesi e tutelati. Anni dopo, nel processo contro i suoi assassini, il suo avvocato ricorda il suo ricorso esclusivo e pignolo ai mezzi legali. 

Nel mettere in risalto questo tema, Franco Blandi ha colto un aspetto spesso sottovalutato delle lotte di quegli anni: l’acquisizione della cultura del diritto, dei diritti da difendere sempre perché le conquiste democratiche non sono mai definitive. Salvatore Carnevale a Sciara, Filippo Intili a Caccamo e come loro chissà quanti altri, “li mangia picca cu’ lu sciatu ciusu”[1] nella Sicilia degli anni ‘40 e ‘50 capirono che il diritto è un terreno della lotta di classe, e quindi ogni passo avanti, ogni singola conquista non solo apre la strada ad un altro diritto ma migliora l’intera società. 

Anche a Caccamo la presa di coscienza umana e politica vissuta insieme ai miei compagni di partito, il legame profondo che si formò tra noi, coscienti di essere comunisti e finalmente fieri di poter camminare a testa alta, venivano alimentati dalle nostre conquiste intellettuali (a me sembrava di farne di più a Caccamo con i miei compagni, spesso analfabeti, di quante ne avessi fatte nei miei studi universitari), mentre per i miei compagni era la scoperta liberatoria di poter spaziare al di là delle miserie quotidiane, di investirsi di responsabilità collettive, di ragionare sulla mafia e sulle leggi a loro favorevoli e che non venivano applicate. Le leggi, appunto, quindi il diritto.

La copertina del romanzo
Francesca Serio. La madre
Uno dei pregi - e non il meno importante - del libro è rappresentato dal linguaggio usato dai protagonisti: lo vediamo articolarsi in registri diversi a seconda di chi parla e del contesto in cui si svolge il dialogo. Dalle parole usate da Francesca nel raccontare la sua vita rimane la vivida impressione di averle ascoltate anziché lette: l’uso che fa del dialetto fino all’assassinio del figlio Turiddu, quando lo trova riverso a terra coperto da un lenzuolo e lo riconosce grazie ai calzini che aveva lavato la vigilia, non lascia dubbi sull’autenticità dei fatti. Una scena lacerante, un atto di violenza estrema che catapulta Francesca in un ruolo nuovo: lei, contadina analfabeta, si erge al di sopra del suo quotidiano fatto di omertà e di paure e denuncia per nome i mafiosi che hanno ucciso suo figlio. Da quel momento in poi, tranne qualche dialogo con parenti e amici, Francesca si esprime in italiano e il passaggio dal dialetto all’italiano è un momento dirompente del libro in cui primeggia l’intransigenza di Francesca nel denunciare gli assassini del figlio; ed è lo stesso concetto e la medesima parola “intransigenza”, appunto, che sceglie Carlo Levi per descrivere Salvatore e la sua tenacia nell’andare avanti, noncurante delle minacce mafiose, e persino dell’assassinio cruento di Filippo Intili, il mezzadro comunista che era andato da lui pochi giorni prima per parlargli di uno sciopero di mezzadri che stava organizzando a Caccamo. 

La stele che ricorda Salvatore Carnevale
Bene ha fatto Franco Blandi a ricordare che Ignazio Buttitta scrisse il suo ”Lamentu pi la morte di Turiddu Carnivali” subito dopo l’assassinio di Salvatore, una ballata bellissima che racconta la vita di Turiddu, la sua determinazione inflessibile nel combattere la mafia, l’amore e l’angoscia della madre Francesca. Il cantastorie Cicciu Busacca la portò in giro per i paesi suscitando ovunque una forte e commossa partecipazione del pubblico e per questa ragione la piazza di Caccamo gli fu vietata da don Peppino Panzeca. Seguirono anni carichi di novità: l’affermazione del partito comunista, l’assenza di Peppino Panzeca costretto alla latitanza. Nel 1963, in occasione della chiusura della campagna elettorale regionale, invitammo Busacca a Caccamo per cantare la ballata in piazza, mantenendo segreta la sua venuta fino all’ultimo momento. Stavano scemando gli applausi al comizio del senatore Li Causi quando si levarono le note della chitarra del cantastorie. La piazza gremita ammutolì. “Veni lu jornu che scende lu messia: il socialismo, con le sue ali di manto, porta pane, pace e poesia” cantò Cicciu Busacca: il messaggio di fondo con il quale Turiddu incoraggiava i braccianti.

La ballata di Buttitta ebbe l’effetto di far conoscere Salvatore Carnevale e la sua storia dentro e fuori la Sicilia. Adesso il testimone passa a “Fancesca Serio, la madre”, la storia dell’eroina umile che seppe combattere i potenti.

[1]I mangia poco con il fiato chiuso. Ignazio Buttita,  U lamentu pi la morte di Turiddu Carnivali.  http://www.youtube.com/watch?feature=player_detailpage&v=7vYnrbrneDM

Biografia di Vera Pegna tratta da "L'Enciclopedia delle donne"
http://www.enciclopediadelledonne.it/biografie/vera-pegna/
Vera Pegna nasce nel 1934 ad Alessandria d’Egitto, dove vive fino ai diciotto anni. Di padre italiano e madre ungherese respira sin dalla tenera infanzia i valori antifascisti di giustizia e libertà, accompagnati da una severa critica al comunismo. Compie i suoi studi in Lingue straniere in Inghilterra e Svizzera, maturando ideali di lotta sociale non violenta.
Nel 1959 approda a Partinico, per lavorare come interprete a un convegno internazionale organizzato da Danilo Dolci, il “Gandhi siciliano”, che denuncia le drammatiche problematiche sociali della realtà isolana. Dopo questa esperienza Vera accetta la proposta di restare a Palma di Montechiaro, per supportare il neonato comitato cittadino. È il suo primo contatto con la prepotenza mafiosa che rende impossibile ogni attività del comitato, destinato a sciogliersi poco dopo.
A Palma conosce Angelo Scopelliti, bracciante comunista e segretario della Camera del Lavoro; durante un confronto sui metodi di lotta sociale non violenta, è lui a chiarirle con concisa semplicità la disperata povertà che li circonda: “Sai, può digiunare chi mangia e si sazia ogni giorno, non è il caso nostro.”
Neanche il Premio Lenin per la pace di ben 17 milioni di lire ottenuto da Dolci sarebbe stato minimamente utile a risollevare il disastro di quelle terre: “È inutile che io seguiti a stare qui facendovi spendere un sacco di soldi per fare un piano di sviluppo insensato”, avrebbe risposto l’economista inglese assoldato nella speranza di dare un minimo slancio all’economia. Questo segna la fine dell’esperienza di Vera nell’organizzazione di Danilo Dolci.
Nel 1962 Vera si presenta alla Federazione del Partito Comunista di Palermo per farsi assegnare un incarico. Il segretario Napoleone Colajanni le consiglia tre letture, che si riveleranno importanti nella formazione della sua coscienza politica: il Manifesto del Partito Comunista, il Che fare e Un passo avanti e due indietro di Lenin. Dopo qualche giorno viene inviata a Caccamo, con il compito di ricostruire il partito in vista delle elezioni.
Viene subito a contatto con l’egemone cultura mafiosa: “Qui a Caccamo non c’è niente da fare, c’è mafia”, asserisce secco il segretario della Camera del Lavoro, Piraino.
È la famiglia dei Panzeca ad avere il controllo capillare e incontrastato del paese; i pochi episodi di dissenso si risolvono puntualmente in efferate violenze ed emarginazione sociale e lavorativa. L’integrazione nella vita comunitaria passa attraverso il benestare della famiglia del padrino, ogni diritto si converte in favore concesso a discrezione dei notabili del paese.
Viene spiegato a Vera che il consiglio comunale si riunisce alla presenza ufficiale di don Peppino Panzeca, il capomafia, seduto accanto al sindaco, e che non è possibile presentare nessuna altra lista oltre a quella della Democrazia Cristiana; il Pci ha tentato di farlo due volte: la prima, il capolista Pino Pusateri è stato ricoverato in manicomio dieci anni, la seconda, il capolista Filippo Intini è stato tagliato in due con l’accetta.
Vera non si lascia intimorire. Nei giorni seguenti raccoglie le forze tra i militanti e comunica ai dirigenti increduli che la lista si presenterà. Viene appesa fuori dal balcone che dà sulla piazza del paese la bandiera rossa: nessuno aveva mai avuto il coraggio di farlo. Ha inizio l’organizzazione dei comizi. L’affluenza è resa pressoché nulla dalla presenza di don Peppino che, a scopo intimidatorio, si pone seduto su una sedia davanti all’ingresso della sede.
“Prova, prova, per don Peppino. Se rimane seduto davanti a noi, allora è vero che è un mafioso; e se è così, allora gli chiedo di alzare gli occhi e sorridere, chè gli voglio fare la fotografia!”, asserisce un giorno Vera al microfono affacciata sul balcone. Il terrore si diffonde in tutta la piazza: i passanti si dileguano, i compagni si rifugiano nella sede. Ma don Peppino si allontana. Segue un duro litigio con i compagni del Partito: è stato un affronto senza precedenti.
Reclutare i quindici candidati necessari per presentare la lista si rivela complicato: le violente intimidazioni mafiose non tardano a presentarsi costringendo i più ad abbassare la testa. Con fatica la lista viene presentata e si riesce a ottenere uno svolgimento approssimativamente regolare delle elezioni. Il Pci ottiene quattro consiglieri comunali: dopo quindici anni la Dc ha un’opposizione.
Il 28 giugno viene convocata la prima seduta. Lungo la via, le donne anziane del paese si fanno il segno della croce davanti ai consiglieri comunisti che si incamminano verso il municipio. Nella sala consiliare, tra tutte le sedie bianche per i consiglieri, sono posizionate quattro sedie nere; accanto alla sedia del sindaco c’è una grande poltrona: è la seduta di don Peppino. Vera vi si dirige e si siede. Nonostante il timore dei presenti, riuscirà a ottenere che venga rimossa.
Seguono mesi di intimidazioni, minacce, continui intralci al regolare svolgimento consiliare.
Vera si mobilita per far valere la legge della spartizione del grano, continuamente elusa. Solo tredici braccianti hanno il coraggio di affrontare il padrone, con Vera che si espone in prima linea dopo aver ottenuto dalle forze dell’ordine il consiglio di non procedere e il rifiuto di offrirle protezione. Nel giro di un giorno, in seguito alle intimidazioni, tutti i tredici contadini tornano sui loro passi e si sottomettono alla legge mafiosa.
Il 30 giugno si consuma la strage di Ciaculli: sette morti causati dall’esplosione di un’autobomba; ma a questo atto, la più brutale delle violenze commesse dai Panzeca, finalmente segue la denuncia per associazione a delinquere contro don Peppino e altri mafiosi, che sono quindi costretti alla latitanza.
Questa vittoria non è però sufficiente a dare slancio alla ripresa istituzionale del paese. Qualche tempo dopo Vera lascia Caccamo, con grande dispiacere. Vi farà ritorno dieci anni dopo e poi nuovamente nel 2012.
In questi anni la situazione è cambiata: Caccamo è un paese moderno e offre tutti i servizi, si parla apertamente di antimafia e si svolgono regolari elezioni. Vera non è stata dimenticata e molti giovani hanno seguito il suo esempio. La sua figura è diventata un mito e tutti nel paese hanno letto il suo libro Tempo di lupi e di comunisti, che racconta il suo impegno giovanile nella politica siciliana. Purtroppo il sostrato mafioso esiste ancora, forte e radicato, e accanto al sincero attivismo antimafioso sopravvive quello doppiogiochista di chi professa nobili ideali di facciata e nell’ombra protegge o pratica la criminalità. In diverse occasioni avverte di essere osannata per il suo celebre impegno passato, proprio perché passato, mentre nella concretezza del presente, ci sono ancora forti resistenze ad azioni che vengono viste come intromissioni.
L’impegno politico e sociale di Vera verte anche sulla questione palestinese. Molto vicina alla cultura araba, critica aspramente il sionismo.
Nel libro Le vittime ebree del sionismo accanto alla ricostruzione del rapporto tra le comunità ebraiche e quelle cristiane e musulmane, si affiancano riflessioni storico politiche intrecciate a ricordi e considerazioni personali dell’autrice.
Insieme a Giuseppe De Luca, Ugo Giannangeli e Giorgio Forti, ha raccolto nel libro I diritti umani e nazionali in Palestina, relazioni, articoli e documenti storici prodotti dal seminario sui diritti umani in Palestina.
Vera è attiva anche sul fronte laicista. Membro della Federazione Umanista Europea, offre il suo contributo ad arginare l’ingerenza del Vaticano e di ogni influenza religiosa sulla gestione politica e sociale di ogni stato di diritto in Europa. Ha esposto le sue riflessioni sul tema come coautrice del libro Laicità, utopia e necessità. Esprime le sue posizioni in diverse occasioni pubbliche, tra cui i convegni dell’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti.

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Recensione di Vera Pegna

Di seguito riportiamo la recensione di Vera Pegna, scrittrice, interprete, attivista politica. Essa stessa protagonista negli anni '60 di alcune delle vicende narrate nel libro "Francesca Serio. La Madre". Vera Pegna “Francesca Serio, la madre”   di Franco Blandi, Navarra Editore 2018 Recensione di Vera Pegna “Francesca Serio, la madre” è un libro avvincente: vale la pena leggerlo, possederlo e regalarlo. Anche se – ammetto – per me un motivo personale si è aggiunto al piacere della lettura. Si tratta del fatto che il Pci mi mandò a Caccamo – a tre chilometri da Sciara, il luogo dove si svolgono i fatti - pochi anni dopo l’assassinio di Salvatore Carnevale e mi trovai ad affrontare lo stesso capomafia, don Peppino Panzeca, il mandante degli assassinii narrati nel libro, nonché capo della commissione della mafia palermitana, altro che mafioso paesano e analfabeta. Più ci penso e più mi rammarico di non avere incontrato Francesca, tanto più che, mi ha detto

Caronia 7 agosto, resoconto e galleria fotografica

Martedì 7 agosto 2018, alle ore 21.00, nel Cortile del Castello di Caronia (ME), su iniziativa della Pro loco Calacta e del comune di Caronia, è stato presentato il romanzo "Francesca Serio, la madre" di Franco Blandi, edito da Navarra Editore. In apertura di serata è stato ricordato Giovanni Granata, artista poliedrico e indimenticato interprete della musica popolare siciliana, attraverso la proiezione del videoclip "Iu c'haiu a tia", brano di Francesco Giunta, realizzato da Franco Blandi e i KalèAtturnu. Grande commozione tra i numerosi presenti all'iniziativa quando Paolo Folisi ha ricordato la vita dell'amico Giovanni e quando, al termine del suo intervento, ha consegnato un omaggio alla moglie di Giovanni, Lina Di Bella. Maria Giovanna Merlino, presidente della pro loco Calacta, conduttrice della serata, ha dato quindi la parola al dott. Anonino D'Onofrio, sindaco di Caronia, per un saluto. E' poi intervenuto il dott. Filippo Faillaci

Presentazione a Santo Stefano di Camastra

Serata partecipata e ricca di emozioni a Santo Stefano di Camastra. Venerdì 26 ottobre, alle ore 19.30, nella sala "Raffaele Mazzeo" della Società Operaia di Santo Stefano di Camastra, è stato presentato il romanzo "Francesca Serio, la madre" di Franco Blandi. Durante la serata, dopo i saluti di Giovanni Todaro (Presidente Società Operaia) e di Tommaso Mascari (Presidente coop. CET), sponsor dell'evento, Doriana Milia (Docente di lettere), ha introdotto i lavori, recensito il romanzo e posto diverse domande all'autore. Franco Blandi ha raccontato la nascita del suo interesse nei confronti della figura di Francesca Serio e la scelta di scrivere il romanzo, ancorandolo in maniera forte alla realtà storica delle fonti che ha consultato nel corso degli anni.. Particolarmente apprezzate le letture tratte dal libro, scelte e interpretate dalla professoressa Anna Ciccia. Anche il numeroso e attento pubblico, ha avuto la possibilità di intervenire e porre domande

16 Agosto 2018 Festival Alcart Alcamo

16 Agosto 2018 Festival Alcart Alcamo Ore 18:30 | Caffè Nannini • INCONTRO CON L’AUTORE - “Francesca Serio. La madre” di Franco Blandi Davanti a un pubblico interessato e ai giovani di Libera, provenienti da tutta Italia, si è tenuta la presentazione del libro "Francesca Serio, La Madre" di Franco Blandi, edito da Navarra Editore. Alcart è un festival che coniuga musica, cinema, installazioni artistiche, presentazioni di libri e dibattiti su temi innovativi e stimolanti in uno scenario d’eccezione, il Parco Suburbano di Alcamo, nel cuore del Golfo di Castellammare, tra Trapani e Palermo. Realizzato dalle associazioni culturali Kepos e Creattiva, nasce dall’idea di rendere la città di Alcamo punto di riferimento culturale e sociale, e da 8 edizioni è polo attrattivo non solo per la cittadinanza ma anche per le diverse realtà territoriali - limitrofe e non - che trovano spazio all’interno della manifestazione come protagonisti.  Alcart Festival

LiberArci dalle spine. Presentazione a Corleone

Nuova presentazione per il romanzo "Francesca Serio. La madre" di Franco Blandi. L'autore, sabato 15 settembre, alle ore 18, è stato ospite a Casa Caponnetto di Corleone, presso i Campi della legalità LiberArci dalle spine.  Giovani provenienti da tutta Italia sperimentano ogni anno alcune settimane di volontariato lavorando nei campi confiscati alla mafia gestiti dalla Cooperativa 'Lavoro e Non Solo' di Corleone e dall'Arci. Durante l'incontro, una trentina di giovani provenienti dalla Toscana, hanno dialogato con l'autore e hanno avuto modo di conoscere la storia di Francesca Serio, madre di Salvatore Carnevale. Nonostante nessuno di loro sapesse chi fosse Francesca Serio, hanno da subito manifestato curiosità e interesse per una storia e un mondo assai lontano da quello da loro vissuto. L'incontro è poi proseguito a cena, con l'autore che si è intrattenuto con i giovani volontari che, così, hanno avuto modo ulteriormente di approfond